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Domenica, 28 Aprile 2024
Oltre la Nato

Perché l’esercito comune europeo è ancora un miraggio

Fondamentali questioni politiche ne hanno impedito il decollo fin dagli albori del progetto d’integrazione, ma ci si chiede se la guerra in Ucraina possa muovere le acque

È un tema che periodicamente riemerge a Bruxelles e nelle cancellerie europee (ma non solo) fin dal 1954, ossia quando naufragò clamorosamente il progetto della Comunità europea della difesa. Da allora, se ne discute periodicamente ma non si sono ancora registrati progressi sostanziali. Tuttavia, il conflitto in Ucraina potrebbe aprire la finestra della possibilità.

Una forza di difesa europea

Dopo la caotica ritirata dell’Occidente dall’Afghanistan la scorsa estate, è tornato in auge per l’ennesima volta il dibattito sull’esercito comune. L’Alto rappresentante dell’Ue per la politica estera e di sicurezza comune Josep Borrell ha presentato a novembre la cosiddetta Bussola strategica, la proposta per un nuovo approccio comunitario alla difesa che s’impernia sull’istituzione di una “forza d’intervento rapido” dell’Ue, 5mila soldati da impiegare negli scenari di crisi oltre confine. In realtà, un nucleo embrionale di forze armate europee esiste già: sono gli European battlegroups, istituiti nel 2007, mai impiegati in combattimento.

La proposta del capo della diplomazia Ue dovrà essere discussa dai leader dei Ventisette nelle prossime settimane, proprio mentre la Russia di Vladimir Putin sta aggredendo l’Ucraina in un confronto dagli esiti tutt’altro che prevedibili. Ma le ragioni per cui questo progetto non è mai decollato sono ancora tutte lì: e sono strutturali, non relative ad una particolare contingenza storica. Ecco perché, nonostante la guerra bussi alle porte dell’Europa, non sono scontati dei progressi epocali su questo dossier così delicato.

Il nodo politico

Fondamentalmente, come sottolinea l’Istituto affari internazionali, la grande assente è la volontà politica degli Stati membri – o meglio, la capacità dei governi nazionali di raggiungere un accordo politico tra posizioni divergenti su una varietà di temi. Il primo è la questione, ancora irrisolta, della relazione strategica tra Bruxelles e Washington: gli europei hanno sempre contato, per la propria sicurezza, sull’ombrello militare della Nato (dominata dagli Stati Uniti). E difatti, dei 27 Paesi Ue, 23 sono anche membri Nato: fanno eccezione Austria, Irlanda, Finlandia e Svezia.

Per Borrell il rapporto tra l’Ue e l’Alleanza nordatlantica dovrebbe essere, in estrema sintesi, “stretto ma non troppo”: la Nato rimarrebbe il partner privilegiato, ma l’obiettivo da perseguire per l’Europa è quello della cosiddetta autonomia strategica (cioè la capacità dei Ventisette di difendersi agendo anche autonomamente rispetto agli Usa).

La spinta di Parigi

Ma questo approccio è tutt’altro che condiviso dalle cancellerie europee. Da un lato c’è la Francia, da sempre paladina di uno sforzo congiunto per la difesa e ringalluzzita dall’incidente diplomatico con gli anglo-americani scoppiato con l’accordo Aukus (quando fu tagliata fuori da una commessa multimilionaria per la fornitura di sottomarini all’Australia). Per il presidente francese Emmanuel Macron non si tratta di staccare la spina alla Nato (che definì “cerebralmente morta” nel 2019), ma di rafforzare piuttosto il “pilastro europeo” dell’Alleanza: una mossa che rafforzerebbe quest’ultima e permetterebbe agli Stati Uniti di focalizzarsi nel settore dell’Indo-Pacifico, dove si giocheranno importanti partite strategiche per Washington nei prossimi decenni.

“Non così in fretta”

Dall’altro lato ci sono gli Stati dell’Europa centro-orientale, gli ultimi arrivati sia in Ue che nella Nato e che, dopo la dissoluzione dell’Urss e del Patto di Varsavia, hanno basato la propria sicurezza sulla protezione garantita dagli americani contro la minaccia della Russia post-sovietica, tornata drammaticamente attuale in questi giorni. Il loro timore è che qualunque fuga in avanti degli europei nel campo della difesa possa indebolire l’Alleanza atlantica, un rischio che non sono disposti a correre.

Anche il Regno Unito, l’alleato “privilegiato” di Washington in Europa, si è sempre opposto con forza a qualunque esercito comune europeo, che riteneva un inutile doppione della Nato, e sulle stesse posizioni si trovano anche alcuni Stati nordici (ad esempio Paesi Bassi e Danimarca).

Berlino e Roma: “Parliamone”

Berlino è un po’ più possibilista. Non è per principio contraria all’idea di una forza militare congiunta, ma chiede più garanzie sulla catena di comando. Chiede, cioè, che la Francia rinunci al proprio seggio di membro permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu: dopo la Brexit, è rimasto l’unico Paese Ue seduto a quel tavolo. Se quindi si facesse l’esercito comune, Parigi avrebbe un potere politico spropositato e, di fatto, deciderebbe dell’impiego delle forze armate europee nel mondo. Piuttosto, questa la proposta della Germania, sarebbe utile che il seggio permanente francese sia offerto all’Ue, in modo che tutti i Ventisette possano deliberare sulla loro sicurezza collettiva. Una proposta tutt’altro che semplice da realizzare.

L’Italia, dal canto suo, ha sempre sostenuto con forza tanto l’Ue quanto l’Alleanza nordatlantica. Potrebbe giocare un ruolo chiave di raccordo e mediazione, se non fosse perennemente appesantita dall’instabilità politica e da una serie di problemi strutturali che ne limitano il peso negoziale. Per il momento, tuttavia, Roma e Parigi hanno siglato il Trattato del Quirinale, in cui rilanciano non solo l’integrazione europea ma anche la convinzione che l’Europa debba saper rispondere (anche) da sola alle proprie esigenze di sicurezza.

Interessi divergenti

C’è poi il tema degli interessi dei Ventisette, raramente conciliabili. Le priorità strategiche sono spesso divergenti. Basti pensare alla rivalità tra Francia e Italia nello scacchiere libico, o a quella tra Parigi e Berlino (e Roma) nel Mediterraneo. I Paesi Ue non sono d’accordo su nulla (o quasi) che riguardi la politica estera, e così l’Unione rimane vittima dei veti incrociati. Ma se non c’è unità nella politica estera, si chiedono gli analisti, come potrebbe essercene sulla sicurezza? E chi comanderebbe le truppe europee? Secondo gli esperti, ci sono resistenze alla difesa comune da parte di molti Stati maggiori militari e ministeri degli Esteri, che vedrebbero le proprie prerogative fortemente limitate.

Sono domande a cui, dopo 70 anni, ancora si fatica a dare risposta. Una delle risposte periodicamente riproposta è quella di un’Europa a più velocità nella difesa: alcuni Paesi (ad esempio Francia, Spagna, Italia e Germania) potrebbero procedere come “apripista”, approfondendo la cooperazione militare senza essere “ostacolati” dagli altri, con una sorta di astensione costruttiva. Una specie di Schengen della sicurezza, insomma, cui chi vuole può aderire e che si manterrebbe al di fuori dei trattati comunitari. Secondo altri, però, una soluzione simile finirebbe per spaccare politicamente l’Ue ed è dunque impercorribile.

La luce in fondo al tunnel?

Ad ogni modo, quello attuale è indiscutibilmente un momento storico critico. La guerra in Ucraina ha compattato tanto la Nato quanto l’Ue in modi per certi versi inattesi. I Ventisette hanno approvato in tempi record diversi pacchetti di sanzioni contro Mosca, e sia Berlino che Bruxelles hanno fatto una plateale inversione di marcia con la decisione di appoggiare l’invio di armi a Kiev, qualcosa che non era mai avvenuto. Vedremo se il Consiglio europeo del 24-25 marzo porterà davvero delle novità sostanziali o se si continuerà per l’ennesima volta a scegliere di non scegliere.

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