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Sabato, 27 Aprile 2024
Il caso

Le scorie nucleari che dobbiamo riprenderci dalla Francia

Entro il 2015 l'Italia avrebbe dovuto costruire un deposito unico dove stipare i rifiuti radioattivi, compresi quelli (i più pericolosi) spediti all'estero. Ma il progetto resta ancora in alto mare

C'era un tempo in cui l'Italia produceva energia nucleare. E con essa le scorie. Dal 1987, le centrali sono state chiuse in seguito a un referendum, ma dopo quasi quarant'anni, ci sono ancora rifiuti radioattivi da smaltire: alcuni provengono dai vecchi reattori trasformati in depositi e non più sicuri. Altri da attività di ricerca e industriali, altri ancora (i più pericolosi) dovranno tornare dall'estero, dove li abbiamo spediti in via temporanea (e pagando un altro prezzo). In totale, ci sono 50mila metri cubi di scorie da stoccare nell'immediato. Il problema è che per farlo, abbiamo bisogno di creare un'unica, gigantesca discarica: si chiama Deposito nazionale, dovrebbe costare intorno a 1 miliardo di euro, e gli esperti dicono che sia sicuro. Peccato che a oggi non si sia trovato ancora il posto dove realizzarlo per via delle resistenze locali. Mentre la Francia ci ricorda che a breve dovremmo cominciare a riprenderci i rifiuti che gli abbiamo spedito.

Le bugie di Fiorello sui rifiuti nucleari francesi in Italia

Già, perché secondo gli accordi presi con Parigi, nel 2025 l'Italia dovrebbe far rientrare circa 235 tonnellate di scorie ad alta e media intensità, quelle più pericolose per intenderci. La Francia non è l'unico Paese estero a cui abbiamo affidato i nostri rifiuti nucleari: anche il Regno Unito, nel sito di Sellafield, sono stoccate scorie italiche. Non che si tratti di un favore senza interessi: solo dal 2001 al 2019, abbiamo versato qualcosa come 1,2 miliardi di euro nelle casse francesi e britanniche. Soldi che l'Italia ha raggranellato inserendo una specifica voce di costo nelle bollette dei suoi cittadini.

In altre parole, pur non avendo centrali nucleari, ogni anno paghiamo una somma, intorno ai 120 milioni, per le scorie prodotte dai reattori chiusi e per quelle che continuano a produrre centri di ricerca, industrie e settore sanitario. Nel 2001, abbiamo creato una società pubblica ad hoc per occuparsi di questi rifiuti e dello smantellamento delle vecchie centrali, la Sogin. Compito della Sogin era anche (se non soprattutto) quello di creare un deposito nazionale che sostituisse quelli attualmente presenti in Italia, oramai vetusti, così come tra l'altro richiede una direttiva europea.

Il deposito nazionale

Il progetto è pronto da tempo: come spiega la Sogin nel suo sito, il deposito dovrebbe costare 900 milioni di euro (ma sui costi preventivati dovrebbe pesare, chiaramente al rialzo, la recente inflazione). In realtà, le strutture da costruire sono due. C'è il deposito che dovrà ospitare i rifiuti a molto bassa e bassa attività, la cui radioattività decade a valori trascurabili nell'arco di 300 anni. La capienza sarà di 78mila metri cubi, di cui 50 "derivano dall’esercizio e dallo smantellamento degli impianti nucleari per la produzione di energia elettrica", mentre altri 28mila provengono "dagli impianti nucleari di ricerca e dai settori della medicina nucleare e dell’industria". Quelli che già esistono (e che sono stoccati nei depositi italiani) sono 33mila, mentre di prevede che ne produrremo altri 45mila in futuro. Insieme al deposito nazionale, verrà costruito anche il Csa (Complesso stoccaggio alta attività), che ospiterà i rifiuti più pericolosi. Avrà una capacità di 17mila metri cubi e dovrebbe accogliere i rifiuti spediti all'estero.

Alla ricerca di un sito

Secondo la Sogin, per mettere in piedi un'opera del genere basterebbero 4 anni. La data limite per la sua messa in funzione era il 2015, poi spostata al 2019. Ma nonostante i rinvii, l'Italia non è riuscita ad avviare i lavori. E così nel 2020 l'Ue ha avviato una procedura d'infrazione. Dinanzi al rischio di ritrovarsi a pagare una pesante sanzione a Bruxelles, il governo di Mario Draghi ha cercato di accelerare l'iter, ma si è dovuto scontrare con le resistenze delle amministrazioni locali. Ne è uscita fuori la Cnapi, la carta delle aree potenzialmente idonee a ospitare il deposito, con la promessa che entro il 2023 i lavori sarebbero partiti. E così arriviamo a oggi: la patata bollente è passata nelle mani del governo di Giorgia Meloni, che questa settimana ha pubblicato una lista aggiornata della Cnapi: nell'elenco ci sono 51 siti potenziali, di cui 21 nel Lazio, 15 tra Puglia e Basilicata, 8 in Sardegna, 5 in Piemonte e 2 in Sicilia. 

Impianto sicuro?

È chiaro che la data limite del 2023 non sarà rispettata: le trattative con i politici locali sono delicatissime, tanto più visti i prossimi appuntamenti elettorali, come le europee del prossimo giugno. La Sogin ha annunciato che la consegna dei lavori potrebbe avvenire nel 2029, se si avvia l'iter nel breve termine. E sul suo sito smonta i timori di chi ritiene il deposito un pericolo per la salute e per l'ambiente. "Le barriere ingegneristiche" della struttura e "le caratteristiche del sito" dove sarà realizzata "garantiranno l'isolamento dei rifiuti radioattivi dall'ambiente per oltre 300 anni, fino al loro decadimento a livelli tali da risultare trascurabili per la salute dell'uomo e l'ambiente", spiega la società. 

Le resistenze 

Inoltre, sostiene sempre la Sogin, il sito porterà lavoro: 4mila occupati solo per la costruzione, a cui si aggiungeranno tra i 700 e i 1.000 addetti per la gestione e la manutenzione dell'impianto. Il territorio che li ospiterà avrà anche riconosciuto un compenso economico. Ma a quanto pare, tutte queste rassicurazioni non sembrano aver smosso i cuori delle amministrazioni locali. A dire il vero, c'è chi si è fatto avanti, impavido: il Comune di Trino Vercellese, in Piemonte, ha fatto sapere di essere disponibile a ospitare il deposito. Del resto, a Trino c'è una delle quattro centrali dismesse, e poco distanti (nella stessa provincia di Vercelli e in quella di Alessandria) ci sono due depositi attivi. Ma il sindaco del piccolo centro è stato subito stoppato dal suo presidente di Regione: "Il Piemonte, e in particolare la provincia di Vercelli, la loro parte l'hanno già fatta. Non pensiamo quindi che si possa ipotizzare un nuovo deposito nella nostra regione", ha detto Alberto Cirio, governatore, tra l'altro, di una giunta di centrodestra.

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