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Venerdì, 26 Aprile 2024
Il conflitto

Perché la Nato non dichiara (ancora) guerra a Putin

Le ragioni formali del Trattato Nord Atlantico. E i precedenti dell'ex Jugoslavia e dell'Afghanistan

Le bombe sganciate dalla Russia che hanno distrutto una base militare ucraina a Leopoli, a pochi chilometri dalla Polonia, sono state lette in Occidente come una sorta di avvertimento alla Nato da parte del presidente Vladimir Putin. Fin dall'inizio del conflitto, il leader del Cremlino ha minacciato "conseguenze mai viste" in caso di "interferenze straniere" in Ucraina. E lo strappo tentato dalla Polonia con la proposta di inviare vecchi aerei Mig-29 a sostegno di Kiev, stoppata dagli Usa, ha molto probabilmente spinto Mosca a mostrare i muscoli alle porte d'Europa. La Nato, per il momento, ha tirato il freno su un maggiore interventismo che potrebbe portare la guerra fuori i confini ucraini: "Abbiamo la responsabilità di impedire che questo conflitto si intensifichi" fino a diventare "una vera e propria guerra tra Russia" e l'Alleanza atlantica, ha detto il segretario generale Jens Stoltenberg. Ma la domanda che comincia a circolare nelle cancellerie occidentali e tra gli esperti militari è fino a che punto la Nato può tirarsi fuori da un confronto faccia a faccia con Putin.

Le divisioni nell'Alleanza

Tra i fautori di un uso più risoluto della forza dell'Alleanza contro Mosca ci sono alcuni Paesi Ue: la posizione pro-interventista della Polonia è nota a Bruxelles, e anche i leader degli Stati baltici (Lituania, Lettonia e Estonia) hanno espresso posizioni vicine a quelle di Varsavia. Nessuno di questi ha ancora espressamente detto di volere entrare in guerra, ma i toni sono quelli di chi ha già l'elmetto in testa. Di contro, tanto Francia, Germania e Italia, quanto gli stessi Stati Uniti (almeno l'entourage del presidente Joe Biden), si oppongono a fughe in avanti. Da ricordare che anche la Turchia ha un ruolo importante, dato che il suo esercito è il secondo per dimensioni tra i membri Nato. Le divisioni tra i Paesi alleati, dunque, sono il primo elemento che ha impedito finora al conflitto di degenerare al di là dei confini ucraini. Dietro queste posizioni ci sono sostanzialmente due ragioni: una formale, e una strategico-geopolitica.

La linea rossa

Da un punto di vista formale, bisogna fare riferimento al Trattato Nord Atlantico. Gli analisti, come quelli vicini al Pentagono statunitense, da settimane sostengono che Putin non si fermerà a Kiev, e che allargherà le sue operazioni militari anche alle vicine Georgia e Moldavia, e forse anche in Bosnia e Kosovo. Il problema è che, come nel caso dell'Ucraina, tutti questi Stati non sono ancora parte della Nato. Secondo le regole che governano l'Alleanza, infatti, perché scatti automaticamente un intervento militare occorre che almeno uno dei suoi membri sia vittima di un attacco armato (il famoso Articolo 5 del Trattato). Non è previsto, invece, uno stesso automatismo se l'attacco riguarda un Paese extra-Nato. 

Finora, come è noto, buona parte dei Paesi alleati si sono limitati all'invio di armi all'esercito ucraino, sfruttando la piattaforma della Polonia, che sta fungendo da base per il sostegno occidentale all'esercito di Kiev un po' come la Bielorussia sta facendo con le truppe di Mosca. Tra le armi messe a disposizione dell'Ucraina, però, non ci sono ancora aerei, a dispetto di quanto annunciato qualche giorno fa dall'Alto rappresentante dell'Ue, Josep Borrell, molto probabilmente su "suggerimento" di Varsavia. La questione aerea sembra sempre più la linea rossa da non superare se si vuole evitare una guerra vera e propria tra la Nato e Mosca (e i suoi alleati). La richiesta di una no-fly zone da parte di Kiev non è stata accolta dall'Alleanza proprio per questa ragione: "Istituirla significherebbe dover abbattere aerei russi" e questo darebbe l'occasione a Mosca di fare lo stesso con obiettivi militari Nato, per esempio in Polonia. Rendendo così inevitabile l'articolo 5.

I precedenti 

Le ragioni formali di un intervento Nato non finiscono però qui. La Storia recente ci ha mostrato alcune eccezioni alla strada maestra dell'articolo 5 (o meglio, alcune interpretazioni più larghe). La prima è stata l'intervento del 1999 nell'ex Jugoslavia. L'operazione, denominata Allied Force, fu varata dall'Alleanza senza una risoluzione Onu a sostegno e con il richiamo a ragioni umanitarie (la protezione dei civili in Kosovo) che da un ventennio dividono gli esperti di diritto internazionale. Quell'intervento ha avuto strascichi geopolitici con cui l'Europa sta facendo ancora i conti: si pensi alla posizione "neutrale" della Serbia sull'invasione russia in Ucraina. E si pensi soprattutto a Putin, che sta usando questo precedente per giustificare l'attacco a Kiev, anch'esso senza risoluzione Onu, nel nome del presunto "genocidio" della minoranza russofona nel Donbass.

C'è poi il caso dell'Afghanistan: in quel caso, la guerra sotto l'egida Nato fu giustificata in nome degli attentati terroristici dell'11 settembre negli Usa. Secondo la posizione condivisa all'epoca dall'Alleanza, per quanto la mano dell'attacco alle Torri gemelle e al Pentagono fosse di un'organizzazione privata (al-Qaeda), il governo talebano di Kabul ne era stato complice. Da qui, la valutazione dell'attentato terroristico come un attacco armato a un Paese membro (gli Stati Uniti) da parte di un altro Stato e il dispiegamento degle eserciti della Nato. Può questa strada essere intrapresa con la Russia? Alcuni esperti, citano eventuali sabotaggi e attacchi informatici all'interno della Polonia, per esempio, che potrebbero essere letti come atti terroristici, anche se non armati. Ma il ragionamento sembra molto vago. Inoltre, pochi mesi fa gli alleati si sono ritirati dall'Afghanistan, sotto la spinta del presidente Usa Joe Biden. Anche per questo, l'attuale amministrazione di Washington difficilmente sosterrebbe tale strada per giustificare un'eventuale guerra alla Russia. 

La tesi interventista

L'unica possibilità (da un punto di vista strettamente formale) di uno scontro diretto con Putin, dunque, sembra al momento quella scatenata da un'eventuale aggressione militare russa a uno dei Paesi dell'alleanza. Per esempio, il drone-bomba caduto in Croazia nei giorni scorsi, qualora fosse di proprietà di Mosca, potrebbe venire usato in tal senso. Oppure, l'esercito di Putin potrebbe attaccare un convoglio di armi guidato da ufficiali Nato al confine tra Polonia e Ucraina. In altre parole, basterebbe un incidente, anche minimo, per dare una pezza d'appoggio formale ai sostenitori della tesi della necessità di un vero e proprio intervento Nato. Ecco perché i bombardamenti a Leopoli hanno riacceso il dibattito, e sollevato il rischio di un'escalation extra-Ucraina del conflitto.

Come dicevamo, però, alla lunga potrebbero prevalere anche ragioni non strettamente formali, ma strategiche e geopolitiche. Secondo John Raine, analista del think tank britannico Iiss (Internation institute for strategic studies), lasciare che la Russia conquisti Kiev e distrugga "l'Ucraina città per città" sarebbe un danno "per la credibilità e l'autorità della Nato in un momento in cui è più disperatamente necessario" agire. "Non c'è, e non dovrebbe esserci, una definizione rigida di ciò che costituisce un attacco armato", prosegue. Quindi, per Raine, tutto dipende dalla volontà politica dei leader dell'Alleanza di intervenire come successo già in passato in Afghanistan, per esempio: "La difficile conclusione per l'Alleanza deve essere che non è possibile impedire alla Russia di condurre guerre convenzionali al confine europeo a meno che la Nato non dimostri di essere pronta a rispondere militarmente a un certo punto e di aver superato la paura di un'escalation", compresa quella nucleare.

La tesi di Gaine ha molti sostenitori tra i governi dell'Alleanza. Ma finora è stata respinta. Stoltenberg ha sottolineato che "una guerra completa tra Nato e Russia" causerebbe "molta più sofferenza, molta più morte e distruzione" di quanto visto finora in Ucraina. E poi, questo non lo dice Stoltenberg, proprio i precedenti in Afghanistan e nell'ex Jugoslavia hanno dimostrato che gli alleati avranno pure la potenza di fuoco per sconfiggere nel breve termine terroristi e dittatori sanguinari. Ma nel medio e lungo termine, le conseguenze di un intervento possono ritorcersi contro. E creare il terreno fertile per nuovi conflitti. 

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