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Sabato, 20 Aprile 2024
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Spotify sbarca in borsa. Ma preferisce gli Usa all'Ue: ecco perché

E' uno dei pochi colossi europei del digitale, ma ha scelto New York per quotarsi. Secondo il think tank Ceps si tratta di un fallimento. E punta il dito contro la burocrazia e le divisioni del Vecchio Continente

Uno dei pochissimi colossi europei del digitale si quota in borsa, ma scegli Usa. Spotify, fondata in Svezia e controllata da una holding in Lussemburgo, è sbarcata il 3 aprile al Nyse, anziché su un listino europeo, con una "decisione strategica che sottolinea il fatto che l'Europa ha la capacità di creare compagnie hi-tech innovative; tuttavia, una volta che queste hanno bisogno di capitali", l'Unione "scompare dalla mappa". Ed è "sorprendente" che l'annuncio della quotazione negli Usa non abbia provocato "alcun dibattito" in Europa. Quasi che il Vecchio Continente, al di là delle chiacchiere, sia rassegnato al ruolo di gregario. Ad analizzare le implicazioni e le cause dell'ennesima sconfitta per l'Ue nell'agone finanziario è Karel Lannoo, Chief Executive del Ceps, think tank con sede a Bruxelles

Le ragioni del “fallimento” Ue

L'Ipo, l'offerta pubblica iniziale, di Spotify, scrive il Ceps, "avrebbe costituito un grande valore aggiunto per i mercati europei dei capitali e per i suoi titoli a crescita elevata. Avrebbe dimostrato che l'Europa può anche essere terra fertile per le aziende ad elevata tecnologia e ad alta performance. E' un peccato che Spotify, un'impresa europea, si sia quotata negli Usa", tanto più che "non è stato fatto alcuno sforzo per mantenere la società in Europa". 

Questo fallimento sottolinea la necessità, spiega Lannoo, di "iniziative ad ampio raggio se l'Europa vuole davvero un'effettiva unione dei mercati dei capitali, per costituire un'alternativa attraente al finanziamento bancario per canalizzare risorse verso le aziende". Si tratta di una necessità, rimarca l'economista, "ancora più urgente alla luce dell'imminente uscita del Regno Unito dall'Ue", cosa che comporterà la perdita della grande piazza finanziaria londinese. 

La scelta di Spotify

Fondata nel 2008, Spotify è il più grande servizio di musica in streaming del mondo; nel 2017 ha registrato ricavi per 4 miliardi di euro. La società è europea: l'ha fondata uno svedese, Daniel Ek, oggi 35enne; ha la holding in Lussemburgo e pubblica i conti in euro, seguendo gli standard contabili europei Ifrs, non i Gaap statunitensi. Metà della sua forza lavoro è in Europa, dove conta anche il maggior numero di abbonati: alla fine del 2017 contava 159 milioni di utenti attivi, 58 dei quali in Europa, contro 52 in Nordamerica. Vale a dire circa il doppio del suo principale concorrente, Apple Music. 

Regole vecchie e burocrazia

Ma allora perché Spotify si è quotata a New York e non a Stoccolma, a Francoforte o a Londra? "Uno sguardo più attento alle regole di quotazione nell'Ue rivela che fanno parte del problema", spiega Lannoo. I tentativi di armonizzare le norme sulle quotazioni in Borsa e per consentire il riconoscimento reciproco di queste offerte tra gli Stati Ue "sono vecchie quanto il mercato unico", ma le regole sono "ancora incomplete". Il testo del 1989 è stato emendato più volte, nel 2003, 2010 e 2017, ma le regole "ancora non permettono una singola Ipo paneuropea".  Manca poi un'autorità unica, come la Sec, che potrebbe autorizzare una sollecitazione al pubblico risparmio in tutta Europa. 

Con le regole attuali, "un'offerta dev'essere autorizzata nel Paese della società, che nel caso di Spotify sarebbero il Lussemburgo o la Svezia" e poi "notificata a 27 o più autorità", per ottenere il permesso di rivolgersi agli investitori dei rispettivi Paesi. Non solo: il prospetto dell'Ipo "deve essere tradotto in tutte le lingue dell'Ue e rispettare le regole a protezione degli investitori" di ogni Paese dell'Unione. Un vero incubo burocratico, insomma. Anche le ultime proposte della Commissione europea di allargare le competenze dell'Esma (European Securities Market Authority) "non consentirebbero ad offerte come quella di Spotify o di altri marchi globali di essere qualificate per un'unica autorizzazione paneuropea", sottolinea Lannoo.

I rischi della Brexit

Non solo: la Brexit "rende questa brutta situazione ancora più allarmante", dato che la City ha la maggior parte delle Ipo europee ed è anche il maggior polo di attrazione per le Ipo non europee. In pratica, "vendere queste azioni nell'Ue a 27 dopo l'uscita del Regno Unito sarà ancora più difficile, e viceversa per l'Ue nel Regno Unito, vista l'incertezza che circonda la questione dell'equivalenza". 

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