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Venerdì, 19 Aprile 2024
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Dogane colabrodo, agli Stati Ue non conviene fare i controlli. E così perdiamo decine di miliardi

L'atto di accusa della Corte dei conti europea: le autorità nazionali non attuano le norme comuni favorendo i traffici illeciti e le frodi. A danno dei contribuenti

Ogni anno, i Paesi Ue importano merci, dai mobili a giocattoli e abbigliamento, per un valore di 2mila miliardi, per lo più da Cina, Usa e Russia. Ma solo il 4,5% di queste merci viene ispezionato fisicamente alle dogane. Il motivo? Fare i controlli non conviene alle autorità nazionali, perché chi li fa nel pieno rispetto delle norme europee potrebbe "subire le conseguenze finanziarie delle proprie azioni" qualora non riuscisse "a recuperare i dazi dovuti dagli importatori". Ma anche perché, a pensar male, gli importatori potrebbero "concentrare i propri traffici su punti di ingresso alla frontiera Ue dove il livello dei controlli è minore". Il risultato è la perdita di miliardi di risorse pubbliche  acausa dei dazi non riscossi, a tutto vantaggio di frodi e furbetti. E a danno dei contribuenti europei. È quanto denuncia la Corte dei conti Ue in una relazione sull'applicazione dei contolli doganali.

Come funzionano i dazi 

Nel campo delle dogane, ricorda la Corte, "l’Ue gode di competenza esclusiva quanto all’elaborazione della normativa, mentre gli Stati membri sono responsabili dell’attuazione di tali norme", ossia dei controlli e della riscossione delle imposte, dazi e Iva. Imposte che poi vengono girate in buona parte a Bruxelles per alimentare le casse europee. Nel 2019, per esempio, "gli Stati membri hanno messo a disposizione del bilancio dell’Ue 21,4 miliardi di euro di dazi doganali, equivalenti al 13% delle entrate di bilancio totali dell’Ue", scrive sempre la Corte.

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Per esempio, sempre nel 2019, la Germania ha importato beni per 367 miliardi, raccogliendo dazi pari a 5,1 miliardi. Di questi 4,1 sono andati alle casse dell’Ue. L’Italia, quarto Paese membro per import dopo Germania, Francia e Olanda, ha riscosso dazi per 2,3 miliardi: 500 milioni li ha tenuti per sé, il resto (1,8 miliardi) lo ha versato a Bruxelles. Si tratta di risorse importanti, ma che potrebbero essere ben più corpose se le norme sui controlli fossero applicate adeguatamente e in modo uniforme da parte dei Paesi membri. Cosa che, secondo quanto ricostruito dalla Corte, non avviene, se non in piccola parte. 

I controlli ridotti al minimo

Le ispezioni documentali riguardano in media il 9,5% delle merci, quelle fisiche (ben più approfondite) raggiungo appena il 4,5%. Ma le percentuali variano di molto da Paese a Paese, con alcuni che fanno registrare un quota di controlli persino sotto l'1%. La Corte non lo dice espressamente, ma l'impressione è che tra gli Stati Ue vi sia una sorta di corsa al ribasso sui controlli. La prima ragione è che, come dicevamo, "gli Stati membri sono disincentivati a eseguire controlli doganali" perché coloro che lo fanno "spesso finiscono col subire le conseguenze finanziarie delle proprie azioni se non riescono a recuperare i dazi dovuti dagli importatori", si legge nella relazione. "Quelli che non li eseguono potrebbero non subire alcuna ripercussione negativa", sottolinea la Corte. C'è poi il rischio che, usando il pugno duro, si finisca per perdere importanti rotte commerciali a favore di altri Stati membri: "Per ottimizzare le loro attività - fanno notare i giudici contabili - gli importatori potrebbero dar preferenza a punti di ingresso con meno controlli doganali". 

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Il caso del Regno Unito

Il risultato è che, così facendo, si favoriscono frodi, traffici illeciti e, da un punto di vista strettamente contabile (che è poi quello su cui si concentra la Corte data la sua competenza), perdite miliardarie per le casse dell'Ue. Tali perdite vengono definite in genere "divari doganali", e sono "la differenza tra l’importo dei dazi all’importazione effettivamente riscossi e l’importo che, in teoria, avrebbe dovuto esser riscosso". La Corte ricorda "un recente caso di frode avvenuto nel Regno Unito (questo Paese non aveva adottato misure appropriate per mitigare il rischio di sottovalutazione delle importazioni di calzature e tessili)", che "ha provocato potenziali perdite in termini di dazi doganali che la Commissione ha calcolato (e iscritto nei conti dell’Ue) in 2,7 miliardi di euro per il periodo novembre 2011-ottobre 2017".

Il divario doganale

Sulla scorta di quanto scoperto nel Regno Unito, "la Corte ha raccomandato alla Commissione di produrre, insieme agli Stati membri, stime del divario doganale, ma tali stime non sono mai state eseguite". A cercare di avere un'idea del danno erariale ci hanno pensato gli esperti "della direzione generale per il Bilancio (DG BUDG) della Commissione", che hanno stimato un divario doganale pari a circa l'1% delle entrate tradizionali dell'Unione. Si tratta di una stima molto al ribasso, sottolineano gli stessi funzionari, visto quanto scoperto nel Regno Unito. Ma a prescindere dall'entità del danno, spiega la Corte, è la beffa per i cittadini Ue: "Qualsiasi mancata riscossione dei dazi doganali deve essere compensata da maggiori contributi basati sul reddito nazionale lordo (RNL) versati dagli Stati membri e, in ultima istanza, grava sui contribuenti europei", si legge nella relazione.

Le norme non funzionano

Per far fronte a questa situazione, e in particolare alle differenti applicazioni dei controlli tra i diversi Stati membri, "la Commissione ha di recente adottato un quadro doganale in materia di rischi finanziari, costituito da criteri e norme comuni nonché da orientamenti". La Corte "riconosce che l’attuazione del quadro rappresenta un passo importante verso l’applicazione uniforme dei controlli doganali, che è essenziale per un’efficace riscossione dei relativi dazi", ma fa notare anche le debolezze di questa riforma: le norme non definiscono bene il concetto di “rischio” e sono "troppo permissive", concedendo agli Stati membri "troppa libertà nella riduzione dei controlli". Inoltre, mancano importanti elementi "quali un’analisi a livello Ue delle importazioni, idonee tecniche di estrazione dei dati e metodi atti a contrastare i rischi finanziari per le importazioni risultanti dal commercio elettronico".

L'unione che non c'è

La Corte "segnala altresì che alcuni Stati membri non sottopongono tutte le dichiarazioni all’analisi dei rischi richiesta, e che le importazioni che comportano un più alto livello di rischio potrebbero non essere considerate appropriatamente prioritarie ai fini dei controlli". Di fatto, scrivono i giudici contabili, "le norme non hanno modificato in maniera significativa il modo in cui gli Stati membri selezionano le importazioni da sottoporre a controllo: hanno per lo più stabilito una corrispondenza tra i criteri utilizzati in precedenza per selezionare le importazioni sospette e i corrispondenti criteri previsti dal nuovo quadro". La Corte ha inoltre "constatato che gli Stati membri non interpretavano le segnalazioni di rischio nello stesso modo e che anche le procedure applicate per ridurre il numero dei controlli a un livello fattibile erano differenti". Inoltre, i Paesi "condividevano solo pochissime informazioni sugli importatori ritenuti rischiosi; ciò potrebbe consentire a tali importatori di eludere i controlli concentrando i propri traffici in quegli Stati membri che non li ritengono sospetti". Come dire: bene le intenzioni, ma l'unione doganale, che ha più di 50 anni, fa ancora fatica a essere tale. Facendo felici furbetti e criminali.

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