Non chiamatele "tasse", ma "meccanismi". Serviranno a coprire parte delle enormi spese extra dovute alle crisi che l'Europa sta affrontando da qualche anno: ci sono gli interessi dei prestiti dei Pnrr, aumentati con il rialzo dei tassi della Bce. Ci sono i fondi per la lotta all'immigrazione clandestina, che serviranno a pagare Paesi come la Tunisia affinché blocchino le partenze dei barconi. Ma anche quelli per non restare indietro nella competizione tecnologica globale. E c'è l'Ucraina, soprattutto, che va sostenuta nella guerra contro la Russia e, si spera presto, nella ricostruzione post bellica. Il conto, stando alle stime di Bruxelles, è di circa 66 miliardi in più che i Paesi membri dovranno trovare per alimentare le casse dell'Unione europea da qui al 2027. Come fare?
Le risorse proprie
La risposta della Commissione europea è affidata (in parte) alle nuove "risorse proprie". Di cosa si tratta? Non avendo un suo sistema fiscale, il bilancio di Bruxelles dipende principalmente dai contributi diretti degli Stati membri, che vengono calcolati sulla base del reddito nazionale lordo. Un'altra fonte di incasso deriva dall'Iva: lo 0,3% di tale imposta riscossa nei singoli Paesi viene prelevata dall'Ue. Nel 2020, per esempio l'Italia ha versato a Bruxelles 16,5 miliardi (terzo contirbutore dopo Germania e Francia), di cui 2 miliardi di Iva. A completare le fonti di incasso dell'Ue ci sono i dazi doganali (il 75% va a Bruxelles, il resto trattenuto dagli Stati) e la tassa sulla plastica non riciclata (ogni Paese versa all'Ue 0,80 euro per ogni chilo di rifiuti di imballaggi di plastica non riciclati).
Per la Commissione europea, queste entrate non bastano più a tenere il passo con le diverse sfide che l'Ue sta affrontando (e con le richieste di governi e forze politiche di una maggiore azione di Bruxelles sui migranti, tanto per fare un esempio che ci riguarda da vicino). Da qui, la proposta di tre nuovi fonti di incasso. Una proposta che potrebbe incontrare l'opposizione di alcuni governi, soprattutto i più frugali. Mentre per il Parlamento europeo potrebbe risultare molto meno ambiziosa di quella che gli eurodeputati hanno presentato lo scorso maggio. Ma vediamo i dettagli.
Ets e Cbam
La prima misura avanzata da Bruxelles riguarda l'Ets, il sistema di scambio di quote di emissioni di Co2 (che l'industria interessata, come acciaierie e cementifici, considera una tassa): i proventi dell'Ets vengono divisi tra Ue e Stati membri. Ora la Commissione chiede che si aumenti la quota destinata alle casse europee (dal 25% al 30%). In questo modo, a Bruxelles arriverebbero circa 1,2 miliardi in più tra il 2024 e il 2028.
Sul tavolo, c'è poi la proposta di ricevere il 75% dei proventi (il resto agli Stati) da una sorta di dazio (il Cbam) che verrà applicato ad alcuni prodotti particolarmente inquinanti, come acciaio e cemento, importanti dai Paesi extra Ue: da questo dazio, Bruxelles conta di guadagnare 1,5 miliardi all'anno tra il 2024 e 2028. L'Italia, per voce del governo, ha salutato con favore questo nuovo dazio: il Cbam ''ci permette di individuare una strada per tutelare meglio il prodotto siderurgico realizzato in Europa e quindi anche gli stabilimenti siderurgici italiani a Taranto, a Piombino", ha detto il ministro Adolfo Urso lo scorso dicembre, quando i Paesi Ue trovarono l'intesa sulla proposta. In sostanza, tassando, per esempio, l'acciaio che viene dall'India (che costa meno di quello prodotto in Italia) si rendono più competitive le nostre acciaierie (le quali pagano per l'appunto la "tassa Ets").
Ets e Cbam non sono delle novità assolute: il primo va avanti da lustri, e l'Ue lo sta pian piano allargando ad altri settori, tra cui quello dei trasporti. In questo caso, la questione è semmai quanto gli Stati sono disposti a cedere parte dei loro guadagni. Il Cbam, invece, è stato concordato da poco a Bruxelles, e dovrebbe partire il prossimo anno. Su di esso pesa la scure di un possibile ricorso all'Organizzazione internazionale del commercio da parte dei Paesi produttori più colpiti, che potrebbero considerare il dazio come contrario alle regole commerciali.
La tassa sui profitti delle imprese (che non è una tassa)
La terza leva fiscale che la Commissione vuole usare per rimpinguare le casse è forse la più controversa: Bruxelles chiede che ogni Stato membro versi ogni anno all'Ue una quota pari allo 0,5% dei profitti registrati dalle imprese (finanziarie e non) in quel determinato Paese. Secondo gli esperti della Commissione, questa forma di entrata garantirebbe ben 16 miliardi all'anno da qui al 2028.
Bruxelles tiene a precisare che non si tratta di una tassa sugli utili delle imprese: i profitti restano alle aziende, sono i governi che pagano. Più profitti si realizzano in uno Stato membro, più la fattura di quello Stato aumenta. Una misura del genere colpirebbe di più, in proporzione, i Paesi dove le multinazionali preferiscono spostare i loro utili, perché meno tassati.
In questo, il meccanismo ricorda in qualche modo quello che dovrebbe entrare in funzione con la cosiddetta Befit, una base imponibile comune del 15% che verrà applicata alle multinazionali che operano nell'Ue a prescindere da dove risiedono. Si tratta dell'imposta concordata a livelli internazionale, la Global minimum tax, la cui logica è di evitare che i Paesi che garantiscono accordi fiscali più generosi alle multinazionali finiscano per sottrarre risorse al fisco di altri Stati membri. Grazie a questa imposta, secondo uno studio di Bruxelles, l'Italia potrebbe recuperare 2,7 miliardi all'anno.
La Commissione europea prevede di riscuotere una parte di questa tassa, quando verrà attuata. Ma i governi non sembrano procedere con solerzia. E così, nell'attesa, Bruxelles ha pensato bene di proporre la leva temporanea alternativa dell'0,5% da applicare agli Stati sulla base dei profitti delle imprese. Se poi gli Stati si rifaranno sulle imprese, magari con un fisco meno generoso per le grandi compagnie, questo è un altro discorso.