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Giovedì, 28 Marzo 2024
Fake & Fact

Sulla Brexit Johnson difende solo la sovranità britannica, a Londra fatte richieste mai viste prima

L'Unione europea vorrebbe che il Paese restasse legato anche in futuro alle scelte fatte a Bruxelles su lavoro e ambiente ma il Regno Unito ha deciso di lasciare il blocco, perché dovrebbe?

Le trattative sulla Brexit tra Londra e Bruxelles stanno durando oltre le più pessimistiche previsioni e a sole due settimane dalla fine del periodo di transizione ancora non si ha la certezza che sarà possibile evitare il baratro del No Deal. La narrazione predominante in Europa è che come al solito Boris Johnson si sta comportando da pazzo irragionevole, che la sua è solo propaganda e che dei rischi che corre il Regno Unito non gliene frega niente. In fondo il premier britannico in Europa non gode certo di un'ottima fama, e addirittura durante la prima ondata della pandemia è stato descritto come un darwiniano pronto a lasciar morire 500mila britannici sull'altare dell'immunità di gregge. Me se proviamo a guardare le cose dal suo punto di vista ci accorgeremmo che forse quello irragionevole non è lui, o almeno non solo lui.

La non regressività

Le richieste che l'Unione europea ha fatto sui due punti più intricati in cui si sono incagliate le trattative, il cosiddetto level playing field e la pesca, sono piuttosto forti e non a caso non sono state finora fatte a nessuna nazione con cui l'Ue ha stipulato un accordo commerciale. Partiamo dal level playing field, cioè il principio della parità di trattamento delle imprese per assicurare che non ci siano distorsioni della concorrenza. Il negoziatore europeo, Michel Barnier, e il suo omologo britannico, David Frost, hanno trovato facilmente un accordo sul principio della non regressione. Questo significa che in futuro le parti si impegnano a non abbassare i loro standard per quanto riguarda diritti del lavoro e ambientali, cosa che creerebbe un vantaggio competitivo sul mercato. Se le mie aziende abbassano gli stipendi, o non devono ridurre l'inquinamento potranno produrre a prezzi più bassi e battere le concorrenti. E fin qui ci siamo.

Gli impegni per il futuro

La cosa che ha fatto però saltare sulla sedia Jonson è stata la richiesta (che lui afferma sia arrivata solo negli ultimi mesi), di includere anche una clausola di equivalenza che vale anche per il futuro. Bruxelles affermava che se un giorno il blocco avesse deciso di innalzare i propri standard sui diritti del lavoro e ambientali, il Regno Unito sarebbe stato obbligato a fare lo stesso, pena l'imposizione di dazi automatici. Ma perché il Regno Unito, che non è più un Paese membro, dovrebbe legarsi le mani per il futuro? Quale Paese lo farebbe? I britannici, che ci piaccia o no, hanno scelto la Brexit, e lo hanno fatto confermando la scelta per ben tre volte, prima con il referendum del 2016, poi con l'elezione di Theresa May e infine con il trionfo proprio di Johnson lo scorso anno che nel programma elettorale aveva in sostanza un solo punto: Get Brexit Done, portiamo a compimento la Brexit. Non facendo più parte dell'Ue gli inglesi non possono contribuire a plasmare le sue decisioni come tutti i Paesi membri, e a allora perché dovrebbero accettarle anche in futuro?

Al Canada richieste diverse

Una richiesta del genere non è stata fatta ad esempio negli altri grandi accordi commerciali dell'Ue, quello con il Giappone e quello con il Canada, il Ceta. Al capitolo 23 di quest'ultimo ad esempio si parla dell'impegno a “non abbassare i diritti del lavoro” e a rispettare “gli standard dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro”, ma poi si aggiunge che l'accordo “protegge il diritto di entrambe le parti di regolare” il proprio mercato del lavoro, fatte salve ovviamente le due precondizioni precedenti. Lo stesso più o meno si afferma per le questioni ambientali. Al Regno Unito questo diritto vorrebbe essere negato, e possiamo davvero biasimare Johnson per non volerlo accettare? È chiaro che il mercato britannico è molto più interconnesso a quello europeo di quanto quello canadese lo sarà mai, ma questo non ci dà il diritto di chiedere ai britannici di cambiare in futuro le proprie leggi solo perché lo facciamo noi.

L'orgoglio del Regno Unito

Tra l'altro vale la pena ricordare che il Regno Unito di Johnson è stato il primo a impegnarsi a un obiettivo di zero emissioni nette entro il 2050 nella legislazione nazionale e che i salari minimi britannici (che in alcuni Paesi non esistono neanche) sono tra i più alti d'Europa. "Vorrei sfatare l'assurda caricatura della Gran Bretagna come nazione votata al taglio dei diritti dei lavoratori e della protezione ambientale, come se fossimo stati salvati dallo squallore 'dickensiano' solo da una regolamentazione illuminata dell'Ue, come se fosse solo grazie a Bruxelles che non rimandiamo i bambini a pulire i camini”, disse il premier in un discorso a Greenwich lo scorso febbraio, con un po' di retorica forse (come nel suo stile), ma a ragione. Il Regno Unito, sia detto con rispetto, non è l'ultimo dei Paesi in via di sviluppo che deve puntare sulla deregolamentazione del mercato del lavoro per prosperare.

Londra dovrà cedere

Ovviamente al di là della propaganda Johnson qualcosa dovrà cedere, perché anche se non lo ammetterà mai e continua ad affermare che i britannici prospereranno anche con un No Deal, la parte forte in questa trattativa resta l'Ue, un blocco di 27 Stati con un mercato paragonabile a quello statunitense o cinese, e in cui i britannici inviano il 43% delle loro esportazioni, mentre ad esempio Germania, Francia e Italia oltre la Manica inviano solo circa il 6% del loro export. Chi si farebbe più male con le imposizioni di dazi in seguito a un No Deal è palese. Si sta studiando per questo un modo per arrivare prima quantomeno a un arbitrato terzo per decidere se una delle due parti potrà imporre tariffe all'altra e in quali settori.

Il capitolo pesca

Per quanto riguarda la pesca la questione è soprattutto di principio, ma anche di sostanza. La pesca e la lavorazione del pesce del Regno Unito danno lavoro soltanto a circa 24mila persone, e un contributo lordo al Prodotto interno lordo di un misero 0,12 per cento. Di fatto però grazie alla Politica comune della pesca, secondo cui i pescherecce dei Paesi Ue hanno pieno accesso alle reciproche acque (ad eccezione delle prime 12 miglia nautiche dalla costa), ben il 57% di quanto è stato pescato nei mari britannici è stato catturato da pescherecci appartenenti ad aziende europee e solo il 43% da quelli di imprese locali. Ma perché il Regno Unito dovrebbe accettare che questo continui anche ora che lascerà l'Ue, per far felice Emmanuel Macron e i francesi che di quelle acque hanno bisogno? Con tutti il rispetto le acque sono loro e ci fanno quello che vogliono, anche perché una cosa è trovare un compromesso, una cosa è chiedere (come ha fatto l'Ue inizialmente) di mantenere lo status quo. “Ccà nisciun' è fesso”, avrà pensato Johnson (per usare le parole di Totò). Il premier britannico ovviamente sta usando la pesca come leva nei negoziati, ma è un suo diritto, non un semplice capriccio. Anche qui un accordo alla fine sarà possibile trovarlo, e anche qui Londra sarà costretta a concedere più di quanto vorrebbe, ma affermare che la sua posizione è irragionevole, è l'unica cosa davvero irragionevole.

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