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Venerdì, 29 Marzo 2024
Lavoro

Non solo Ilva, l'acciaio europeo teme per il suo futuro. Ecco perché

Nonostante produzione e occupazione sono tornati ai livelli di 5 anni fa, le lobby del settore lamentano che una nuova crisi è alle porte. La concorrenza dei Paesi terzi, come Cina e Turchia. Ma anche, se non soprattutto, i rischi della transizione ecologica

La produzione è tornata più o meno ai livelli di 5 anni fa. E anche i livelli occupazionali nell'ultimo biennio sono tornati a salire, dopo il tracollo che ha ridotto di quasi 50mila unità l'intera forza lavoro del Continente. Eppure, i big dell'acciaio europeo lamentano che la crisi non è finita e che anzi potrebbe aggravarsi nel prossimo futuro. Come il caso dell'ex Ilva di Taranto sta dimostrando. I problemi sono complessi, ma possono riassumersi in due fattori: concorrenza estera e sostenibilità ambientale. 

La concorrenza

Sul fronte della concorrenza, la siderurgia europea lamenta da tempo la sovrapproduzione da parte della Cina, che ha avuto l'effetto di abbassare i prezzi anche sul mercato Ue. Ma Pechino non è il solo a preoccupare: ci sono anche la Turchia, che è in assoluto il Paese che esporta più acciaio in Europa, seguita da Russia, Corea del Sud, la già citata Cina e India. In totale, nel 2018, l'Ue ha importato 29,3 milioni di tonnellate di prodotti finiti: nel 2009 erano "appena" 12,8 milioni. 

Di contro, le esportazioni dai Paesi Ue verso il resto del mondo sono in costante diminuzione: 20,5 milioni di tonnellate nel 2018 (di cui un quarto nel Nord America), contro i 27,6 milioni del 2012, quando è stato toccato il picco dell'ultimo decennio. Nonostante questo, se si esclude il Regno Unito che ha quasi dimezzato la sua produzione dal 2014 a oggi, il resto dell'Ue ha pressoché mantenuto i livelli di produzione: l'Italia, che è la seconda forza europea dopo la Germania, ha prodotto 24,5 milioni di tonnellate nel 2018, quasi un milione in più rispetto al 2014, dando lavoro a 33mila addetti diretti (ossia senza contare l'indotto). Anche lo spauracchio dei prezzi al ribasso sembra per ora sventato: dopo il tracollo del 2016, infatti, l'andamento sul mercato italiano e in quello europeo sembra per ora essersi stabilizzato.

Le nubi sul futuro

Perché allora in Italia come nel resto dell'Ue, i big dell'acciaio temono per il loro futuro? Una prima motivazione, più volte sottolineata nei documenti ufficiali delle lobby del settore, è che le politiche protezionistiche del presidente Usa Donald Trump possano spingere sempre più acciaio a basso costo prodotto in Cina e Turchia verso il mercato Ue, come successo nel recente passato. Del resto, nei primi 8 mesi del 2019, la produzione cinese è aumentata già del 9% rispetto allo stesso periodo del 2018. Inoltre, sempre i dazi di Trump potrebbero colpire il settore auto europeo, in particolare quello tedesco, che è tra i maggiori acquirenti dell'acciaio Ue. 

Su questo punto, Eurofer, la lobby che riunisce i big dell'acciaio europeo, ha chiesto di recente alla Commissione Ue (e ottenuto) di intervenire: le misure protezionistiche varate l'anno scorso per frenare il dumping da Cina e altri Paesi non sono sufficienti, secondo Eurofer, e Bruxelles ha deciso di aumentare le soglie di salvaguardia sulle importazioni. Troppo poco, pero', per la lobby italiana di Fereracciai: "Il protezionismo è diffuso un po' ovunque nel mondo, l’unico vero mercato libero e l’Unione Europea - osserva il direttore generale Flavio Bregant - Il nostro rischio è che una volta distrutta l’industria siderurgica europea, i Paesi produttori extraeuropei, le cui industrie adesso spesso si avvantaggiano di aiuti di Stato, potranno imporre i prezzi che vorranno". A frenare il pugno duro di Bruxelles sui dazi sarebbero, secondo l'Ansa, Paesi come l'Olanda che non sono produttori, ma riutilizzatori dell'acciaio: per loro, dunque, più i prezzi sono bassi, più la convenienza per le proprie imprese aumenta.  

La questione ambientale

L'altro elemento di preoccupazione, meno citato dalle lobby del settore, riguarda le politiche europee sull'ambiente. Il caso dell'ex Ilva è in tal senso emblematico. Per soddisfare gli accordi di Parigi, occorrerà tagliare, e non di poco, le emissioni di Co2 da parte dell'industria. E il settore dell'acciaio produce circa il 24% delle emissioni complessive di tutta l'industria mondiale.  

Eurofer ha di recente lanciato una roadmap secondo la quale le industrie del settore dovrebbero ridurre del 15% le loro emissioni entro il 2050. Per le organizzazioni ambientaliste, pero', il taglio è inferiore a quanto sarebbe necessario per rispettare gli accordi Onu. Il problema è che la riconversione degli impianti, come quello di Taranto, richiedono tempi e soprattutto risorse che i grandi gruppi sostengono di non poter affrontare.

Non che manchino i progetti all'avanguardia: in Svezia, per esempio, il gruppo SSAB sta costruendo un impianto, che dovrebbe essere pronto nel 2020, in cui la produzione non si affiderà all'energia proveniente da fonti fossili. L'operazione sta costando circa 150 milioni di euro. 

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