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Giovedì, 18 Aprile 2024
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La nostra tuta spaziale che fa uscire al sole i "bimbi della luna"

Viaggio in un'azienda italiana che progetta e crea abbigliamento ipertecnologico per chi deve affrontare situazioni estreme. Per sport o per malattia

Progettano e creano abbigliamenti e accessori all'avanguardia, facendo ricerca sui tessuti per abbinare performance e sostenibilità ambientale. Lo fanno per aiutare gli sportivi ad affrontare eventi estremi, come le traversate oceaniche in solitario o la Parigi-Dakar. Ma anche per aiutare chi con le situazioni estreme deve fare i conti ogni giorno, come i "bambini della luna" affetti da xeroderma pigmentoso, una malattia rara che pregiudica loro la possibilità di stare esposti al sole. Parliamo di Grado Zero Innovation, marchio di Pangaia Grado Zero, Pmi italiana che esegue ricerca e sviluppo applicata, progettando e ampliando la produzione di materiali innovativi e prodotti finali.

Grado Zero è una delle tre realtà italiane che hanno partecipato a "Sport Innovators", la nuova serie di mini-video di Epsi (European Platform for Sport Innovation) dove i protagonisti non sono atleti o campioni, ma coloro che innovano le attività sportive da dietro le quinte, rendendo possibile la pratica dello sport in modo più democratico e inclusivo. Con il direttore R&D e direttore di produzione, Enrico Cozzoni, abbiamo cercato di entrare più nello specifico di questo lavoro.

Come nasce Grado Zero?
Nasciamo alla fine degli anni ‘90 vicino Firenze tra il distretto della pelle di Santa Croce e il distretto tessile di Prato che sono le due anime dell’artigianato e del prodotto tessile e pelle della regione. Nasciamo come spin-off quando iniziano ad affacciarsi sul mercato fibre di tipo tecnico, come quelle di carbonio, e che da un ambito prettamente aeronautico, ad esempio, vengono usate per gli scii o racchette da tennis o altre cose. Le nostre prime collaborazioni sono all’interno dell’allora attivo programma di trasferimento tecnologico dell’Esa (l’Agenzia spaziale europea). Nel video “Sport Innovators” viene presa una di queste collaborazioni, quella che ha portato alla realizzazione della tuta per i bambini malati di xeroderma pigmentoso, una malattia che pregiudica la loro possibilità di stare sotto radiazioni ultraviolette di qualsiasi genere. Esa finanzia diversi dei nostri progetti per il trasferimento degli esperimenti per far vedere come i materiali high-tech possono essere utilizzati negli oggetti di tutti i giorni, nell’abbigliamento ma anche in altri dispositivi, finanziando una serie di nostri prototipi che sono stati più o meno tutti indirizzati. Il trasferimento di questi materiali si è finalizzato alla realizzazione di prototipi in ambito sportivo, che ha riguardato la Parigi Dakar, la Moto Gip, sistemi indossabili di raffreddamento per performance in situazioni estreme, come le missioni nell’Antartico. Ad esempio, una giacca che incorpora un sistema basato su Aerogel di isolamento termico in ambienti estremi. I nostri materiali, dovendo rappresentare un connubio tra un utilizzo da parte delle persone e le performance spinte, sono molto spesso andati a ricadere nell’ambito dello sport e degli sport estremi. Ad esempio, una nostra tuta, che consente l’espletamento delle funzioni fisiologiche, ha permesso alla prima donna di realizzare la traversata oceanica.

Da dove inizia il vostro lavoro?
Per noi tutto inizia dal fatto che il materiale è asservito al prodotto. Tutto parte dalla progettazione del prodotto, dall’aspetto progettuale, dal design, dal capire quale soluzione possa meglio adattarsi. Il prodotto è visto da un lato più ampio che è quello del chiederci che materiali usiamo, da che fonti derivano, come possono essere separati dal prodotto, qual è lo scenario di fine vita di un prodotto che si porta dietro un suo impatto. E così arrivo al secondo pilastro che ci guida e che è la sostenibilità. Su questo eravamo già pronti perché avevamo già fatto sperimentazione nel tessile a 360 gradi. Oltre ad avere materiali ultra performanti, avevamo i materiali che si adattano in risposta a degli stimoli esterni. La necessità di trasmettere un certo tipo di dati è sempre stato un aspetto fondamentale e con quello è stato abbastanza naturale procedere a una digitalizzazione di un certo tipo di contenuti, perché già lo facevamo. Queste le cifre di Grado Zero: performance e sostenibilità. Ho citato il Muskin, la pelle di fungo, ma potrei citare l’ortica, il cipresso e oltre 25 tipologie di fibre naturali che abbiamo sperimentato in prodotti di vario genere. La natura ci dà già delle performance che possiamo usare e quindi dove c’era la possibilità di usare una caratteristica naturale per performarla in un prodotto lo abbiamo fatto. Le abbiamo un po’ tutte. Molte con la collaborazione con Esa e molte con clienti o internamente.

E i vostri numeri?
Fissi siamo attorno ai 15. Ma mediamente orbitano tra le 25 le 30 persone, che operano nei progetti che realizziamo e che finanziamo noi o a volte sono coperti da Università, Comunità europea o fondi di bandi. Abbiamo due sedi, vicine l’una all’altra, a Montelupo Fiorentino e a Empoli ovest. E abbiamo anche una unità operativa in Puglia e una in Campania, come uffici per tenere rapporti con aziende posizionate a Bari e a Napoli prevalentemente, in questi due casi, per progetti che orbitano in trasporto e aerospazio. Una parte delle nostre attività da agosto è stata ceduta a un gruppo che si chiama Pangaia dando origine a una nuova società che si chiama Pangaia Grado Zero che è legata alla moda sostenibile. Per quanto riguarda il fatturato, con l’azienda storica ci si aggirava nell’ordine di uno-due milioni a fronte di un completo reinvestimento nell’azienda, nel farla crescere, nel garantirci la possibilità di fare ricerca e innovazione come desideravamo. Il nostro maggior lavoro è quello di realizzare il prototipo per fare una tecnologia e capire come questa tecnologia, questo materiale, può essere trasportato in un prodotto finale.

Come legge questo periodo storico di ‘scoperta’ da parte della politica, se così si può dire, del concetto di sostenibilità e della revisione dei nostri modelli produttivi e di consumo?
La sostenibilità va su due cavalli. Il primo è quello del dare l’impressione di essere sostenibile, che non necessariamente comporta azioni, ma un’ingente quantità di comunicazione su questo. Questo non si accompagna spesso con azioni reali, che il secondo cavallo. Da questo punto di vista le aziende prettamente italiane sono molto più serie. Se dicono che vogliono provare a reinventare i loro prodotti per abbassare emissioni, ad esempio, o a pensare il prodotto nel suo intero ciclo di vita o a non usare animali ecc… lo fanno. Magari con fatica, ma lo fanno. Molti brand internazionali più che altro lo comunicano e rispetto a quello che potrebbero fare vedo pochissimo o niente realmente realizzato. Mi auguro che l’Europa spinga di più a livello normativo e obblighi a un vero ripensamento.

Come si aspetta dal Pnrr e in generale come pensa che questo momento storico inciderà in Italia?
In Italia è difficile fare innovazione, ma il nostro Paese ha grandi risorse, che a volte vengono fuori davvero dal nulla. Questo mi piace e mi rende orgoglioso del mio Paese e mi fa sperare che moltissime aziende interessante, anche piccole e medio piccole, che portano avanti in maniera seria dei concetti e l’innovazione, possano avere il supporto strutturale per far fare il salto in avanti vero al nostro Paese. Chi produce qualcosa ha anche una responsabilità di cosa produce. Se non partiamo da questo, facciamo solo belle parole. E poi dobbiamo investire nelle idee, nelle persone, nel realizzare oggetti, con materiali diversi, con un approccio diverso al progetto. Il consumatore deve essere poi informato su cosa è il prodotto, su costa sta comprando e su cosa comporta comprare un prodotto piuttosto che un altro. Da questo punto di vista spero che l’Europa ponga delle chiare regole sulla produzione e sulle responsabilità che ci sono nell’immettere un prodotto sul mercato. Perché queste responsabilità sono cambiate e oggi c’è anche la responsabilità ambientale. h

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