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Venerdì, 19 Aprile 2024
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"Solo l'11% delle imprese agricole europee è gestito da giovani: servono investimenti e programmi educativi"

Intervista a Diana Lenzi, presidente del Ceja: "Serve un sistema Europa, basta gelosie nazionali"

Accesso al credito garantito per i giovani agricoltori, piani di studio adeguati e un dialogo vigile con le istituzioni per non sprecare i fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza: così si superano le difficoltà in cui oggi navigano i giovani imprenditori agricoli europei, secondo il Ceja e la sua nuova presidente, l'italiana Diana Lenzi. Il Ceja è il Consiglio europeo dei giovani agricoltori, racchiude 32 associazioni dai diversi Paesi Membri. Si muove facendo lobby e advocacy nelle istituzioni europee, apportando cambiamenti che poi influiscono direttamente nella vita degli agricoltori europei.

Diana Lenzi è una giovane imprenditrice agricola italiana. Formazione in scienze politiche, un passato da chef a Roma, dal 2008 gestisce l’azienda vitivinicola di famiglia, la Fattoria di Petroio, che produce Chianti classico in provincia di Siena. Un’azienda storica, che sotto la gestione dei genitori ha scelto di perseguire la qualità dei prodotti invece che la quantità. A Siena ha fatto nascere una sezione dell’Anga, l’organizzazione dei Giovani di Confragicoltura. Nel 2015 è stata eletta vicepresidente dell’area centro dell’Anga, e poi ne è diventata delegata al CEJA. “L’anno scorso ho deciso di andare all-in e candidarmi alla presidenza, anche perché in quanto 38enne avevo solo un anno per poter essere considerata una giovane imprenditrice agricola” ride Lenzi.

Quali esperienze da imprenditrice agricola ha portato al CEJA e quali riporta a casa nel confronto con agricoltori di tutta Europa?

A Bruxelles ho portato tutti i miei fallimenti. Essere imprenditrice è un percorso a tentativi, fatto di rivalutazioni e riorganizzazioni. Nei miei dieci anni in azienda ho fallito spesso, per esempio avevo creato una nuova azienda per rilevare quella dei miei genitori perché fosse chiaro anche sulla carta che quella impresa era gestita da una giovane, donna, dedicata al biologico, e anche per sviluppare un progetto con i fondi europei del Piano di Sviluppo Regionale. Non è andata bene, però ho capito come funzionano i meccanismi dei fondi europei. Queste conoscenze le ho portate a Bruxelles, perché ora so che l’esistenza dei fondi non garantisce possibilità per i giovani.

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Cioè?

Spesso per accedere ai fondi vanno spesi una quantità di capitali importanti, quindi l’effettivo aiuto diventa una minima parte dello sforzo che serve per accedervi. È una grande stortura del sistema. Per esempio i premi di primo insediamento, finanziamenti pensati per i giovani che vogliono aprire un’impresa agricola: per molti colleghi sono stati approvati ma è dal 2014 che stanno aspettando il contributo. E sono persone che hanno cambiato la loro vita, si sono adattati, hanno un progetto, spesso hanno bisogno di fare interventi importanti in zone difficili. Serve un approccio più pragmatico. Ogni singolo euro speso deve essere funzionale all’aumento della competitività e della sostenibilità delle aziende agricole.

Quali sono nel pratico le difficoltà di accesso al lavoro per i giovani e sono le stesse in tutta Europa?

Sono le stesse in tutta Europa, e se vogliamo sono globali. L’Organizzazione mondiale degli agricoltori lo conferma. Il primo problema è l’accesso alla terra, se non hai un’azienda ereditata è molto difficile acquistarne una o acquistare il terreno. La terra è ormai una risorsa molto limitata, su cui c’è una grande competizione. Legato a questa problematica c’è quella dell’accesso al credito, perché un giovane che parte da zero ha difficoltà ad avere qualcosa con cui andare in una banca per poter chiedere un finanziamento: le pratiche dei giovani che chiedono mutui e finanziamenti agricoli hanno il 75% in più di possibilità di essere rigettate.

Per sfiducia?

Per assenza di collateral. Se non hai nulla a parte l’azienda stessa da poter usare come garanzia la banche non concedono mutui. Questo non solo in fase di avvio dell’impresa, ma anche di strutturazione, perché un’impresa spesso ha bisogno di investimenti: le piante da rinnovare, i macchinari da comprare, e sono tutti investimenti importanti. E inoltre manca il know-how. Spesso mi sono trovata a lavorare con persone molto competenti ma con gravi lacune: io stessa avevo una formazione umanistica e organolettica, ma se anche avessi studiato enologia mi sarebbe mancata la parte di business e marketing. O viceversa. Per quello che ho potuto sperimentare i programmi universitari di Agraria o di Economia danno solo una minima infarinatura dell’uno o dell’altro. Non ho ancora trovato in Europa programmi ministeriali o educativi così completi. E inoltre l’agricoltura sta cambiando, tra l’uso delle nuove tecnologie, dei big data, dell’agricoltura di precisione: novità nemmeno prese in considerazione dagli istituti agrari e dalle università, si trovano solo nei corsi di alta formazione.

Qual è il risultato di tutti questi fattori?

Che solo meno dell’11% delle aziende agricole europee è gestita da giovani under 40. Vuol dire che l’agricoltura sta morendo.

Come si affronta questo futuro incerto?

Sono problemi che vanno affrontati in modo strutturale e strutturato: l’Europa vuole continuare a mangiare cibo sano, sostenibile e a buon mercato? È chiaro che si deve investire nell’agricoltura, non depauperarla: non basta imporre agli agricoltori mille obiettivi rispetto alla sostenibilità ambientale senza però dare loro gli strumenti per poterli raggiungere. Questo settore ha già delle marginalità ridicole, nella catena di valori siamo all’ultimo gradino, anche se senza quest’ultimo gradino non esisterebbe la catena di valori. Dobbiamo renderla l’agricoltura di nuovo attrattiva, e questo è difficile se una famiglia di agricoltori non riesce a vivere del reddito del proprio lavoro.

La sostenibilità non deve ricadere sulle spalle e sulle tasche dei lavoratori, quindi.

Esatto. La sostenibilità, il rispetto della terra e delle risorse sono valori in cui come CEJA crediamo fortemente, sono le basi della nostra stessa esistenza. Anche gli agricoltori devono efficentare i loro sistemi di produzione per ridurre le emissioni, ma appunto, anche. Prendiamo la nuova Politica Agricola Comune: condivisibili i fini, carenti i mezzi. È difficile produrre di più a meno. Anche l’agricoltore devo sopravvivere: quell’11% rischia di essere un 8% tra cinque anni.

Parliamo di PNRR: dove investire i fondi per non sprecarli?

È fondamentale che quello che è arrivato dall’Europa venga speso bene, e questo un po’ mi terrorizza. Perché alla fine è sui giovani agricoltori di domani che ricadono le scelte di oggi. Ci deve essere un sistema di vigilanza presente, non possiamo permetterci di dilapidare un patrimonio del genere. E poi l’agricoltura europea è estremamente variegata, bisogna riconoscerne il valore e ampliare gli orizzonti: dobbiamo pensare a un sistema Europa, non a tanti sistemi nazionali.

Cosa intende?

Bisogna cedere su alcune gelosie, e usare parti di Europa per determinate produzioni e altre parti per altre produzioni. Oggi ogni Paese vuole provare a esser indipendente: se riconoscessimo un po’ di interdipendenza e intersolidarietà europea ne usciremmo, come agricoltori, rafforzati. Si realizzerebbe anche più sostenibilità, perché imporre alcune coltivazioni a terreni che le rigettano è il contrario della sostenibilità. E infine è necessario ascoltare il mondo della ricerca.

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