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Venerdì, 19 Aprile 2024
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Il futuro delle nostre città dopo la pandemia

Il lavoro a distanza ci tiene lontani dai grandi centri urbani e il lockdown ci fa ripensare alle nostre necessità abitative: dialogo con l'urbanista Alessandro Coppola

Tra le immagini più stranianti del 2020 ci sono quelle delle nostre città vuote, con negozi chiusi, uffici spopolati e mezzi di trasporto deserti. Il turismo si è fermato, e soprattutto i più fortunati hanno potuto lavorare dalle proprie case, al sicuro. Il lavoro da remoto è qui per rimanere: magari non nelle forme attuali, ma possiamo immaginare che molte riunioni passeranno online e che parte della settimana sarà di lavoro da casa. Il Joint Research Center dell’Unione Europea ha stimato che in Europa il 37% dei posti di lavoro potrebbe svolgersi in teleworking. Se fosse confermato il trend, è inevitabile che questo avrà un impatto sulle nostre città, soprattutto sulle zone dove si concentrano servizi e uffici. Una sfida anche per il nuovo Bauhaus, il progetto della Commissione europea che mira a ripensare centri urbani e aree rurali. Ne abbiamo parlato con Alessandro Coppola, urbanista e docente al Politecnico di Milano.

Quali sono le certezze che questa pandemia ci lascia?
Sicuramente sappiamo che a livello globale i valori immobiliari sono cresciuti durante la pandemia. L’aumento non è stata nelle aree centrali, metropolitane, ma prevalentemente in quelle suburbane.

Perché sono cresciuti?
I motivi sono vari. Il mercato è congelato: c’è poca offerta, il che potrebbe essere un buon fattore congiunturale. La cosa interessante è proprio la zona dove i valori immobiliari sono cresciuti, che come dicevo prima è molto diversa rispetto alla zona di crescita degli ultimi decenni. Questo potrebbe essere legato all’idea che il lavoro a distanza sarà una costante dei prossimi anni: magari non lavoreremo da casa cinque giorni su sette come oggi, ma parte della settimana sarà a distanza. Quindi il collegamento ottimale con il luogo di lavoro non sarà più uno dei fattori determinanti quando si sceglie una casa. Questo avrà un impatto sull’organizzazione spaziale delle città.

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Il lavoro a distanza cambierà così tanto le nostre città e le nostre case?
L’impatto non sarà uguale per tutti, perché il lavoro a distanza non è possibile per tutte le occupazioni. Quel 37% di lavori che si possono fare a distanza è una quota alta, che diventa ancora più alta nella manodopera concentrata nelle grandi aree urbane, che è più legata al terziario, con qualifiche più alte e più adatta al lavoro da casa rispetto al manifatturiero o ai servizi. Ma è anche il tipo di occupazione che vive di più la città, e viceversa: le grandi città europee si sono adeguate ai bisogni di questo settore della popolazione. E c’è un secondo ma: questa categoria lavorativa ha associato il concetto di produttività alla prossimità: per lavorare è necessaria la presenza sul luogo di lavoro, lo scambio diretto di idee e informazioni con le persone. Qui sta il nodo: i lavori ad alta qualificazione sono quelli che a tavolino sono più adatti al lavoro a distanza, ma anche quelli che sentono di avere bisogno della prossimità per fare innovazione. 

Ci sposteremo quindi in massa dalle città?
No. Non condivido le ipotesi di rivoluzione urbana che qualcuno sta predicando. Non ci saranno cambiamenti epocali, e le grandi città rimarranno comunque i poli centrali e più attrattivi. Non ci sarà un trasloco di massa o da grandi numeri sugli Appennini o sulle coste non urbanizzate. Non è un desiderio così comune e soprattutto per la stra-grande maggioranza della popolazione non è realizzabile. Possiamo essere ragionevolmente certi che una parte della nostra vita sarà lontana dai grandi centri urbani, ma per ora non vedo evidenze di grandi impatti.

La sfida del Nuovo Bauhaus

L’impatto del lavoro a distanza non sarà lo stesso per parti diverse delle nostre città, immagino.
Esatto. Sicuramente i centri storici stanno vivendo effetti più significativi, perché attirano molto dal punto di vista occupazionale e turistico, entrambi fattori che in questi mesi si sono in parte allontanati dalla città. Per i centri storici l’incognita è quando tornerà il turismo ai livelli pre-pandemici: se passerà molto tempo sarà necessario capire cosa fare del patrimonio immobiliare che prima era occupato a usi turistici. Peggio dei centri storici da questo punto di vista possono fare solo le zone direzionali, che in Europa sono in tutte le grandi città e che in Italia sono concentrate quasi solo a Milano, tra City Life, Porta Nuova e i nuovi distretti. Zone ricche di grandi imprese che facilmente e con grande efficacia sono passate al lavoro a distanza, ma che occupano edifici completamente monofunzionali: le torri di uffici sono difficilmente convertibili in abitazioni o altro. Ma nessuna grande impresa vuole lasciarle vuote – cosa che non succederà. Molto probabilmente non ci sarà una Milano con i palazzi vuoti. Ma la questione del futuro di queste zone nel medio periodo rimane.

E sulla casa, che effetto avrà la pandemia?
Secondo me abbiamo sopravvalutato l’effetto che la pandemia avrà sul nostro concetto di casa, di abitazione. Da un certo punto di vista è vero che faremo un uso diverso dello spazio abitativo, ma è un processo iniziato già prima della pandemia. Il fattore che ha più alterato gli equilibri è stata la didattica a distanza. Per chi ha un reddito elevato cambierà poco. Per chi avrà una vita lavorativa mista, cioè lavoro a distanza e in presenza, diminuirà sicuramente il pendolarismo e ci potrebbe essere uno spostamento verso le aree periurbane, fuori dai grandi centri abitati. Nel medio periodo si può immaginare una situazione in cui la centralità della casa verrà sacrificata per uno spazio domestico più ampio. Servirà una casa più smart, con un diverso rapporto tra spazi pubblici e privati, esterni e interni.

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