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Martedì, 16 Aprile 2024
Economia

Cosa rischia Meloni (e l'Italia) con la riforma Ue del Patto di stabilità

Stessi limiti di deficit, ma tagli del debito più realistici e multe soft: ecco perché la proposta della Commissione è un'arma a doppio taglio

L'austerity è morta, viva l'austerity. La riforma del Patto di stabilità doveva essere una svolta rispetto alla politica fiscale Ue incentrata più sulla riduzione del debito pubblico che sulla crescita economica. Ma la proposta presentata mercoledì a Bruxelles non tocca le soglie del 60% sul debito né del 3% sul deficit ereditate dal vecchio Patto. Il testo fissa invece piani di aggiustamento più credibili, persino scritti dagli stessi Paesi Ue più indebitati, che sostanzialmente vanno a 'legare' questi ultimi più di prima al rispetto della "traiettoria" che la Commissione vuole dare alle economie più indebitate d'Europa, Italia in primis.

Cosa è il Patto

Il Patto di stabilità e crescita, questo è il suo nome ufficiale, è un accordo varato nel giugno 1997 e che ha recepito i criteri di convergenza economica stabiliti nel Trattato di Maastricht per l'ammissione nell'Eurozona: deficit di bilancio pubblico inferiore al 3% del Pil e debito pubblico inferiore al 60% del Pil. La sua riforma si è resa necessaria con l'esplosione del debito pubblico dei Paesi Ue durante la pandemia, quando la media del passivo degli Stati membri ha raggiunto quota 100%. Di qui la decisione di rendere più realistiche le regole del Patto che, nella sua versione attuale, richiedono agli Stati più indebitati una riduzione del debito pari a un ventesimo l'anno della quota del passivo statale eccedente il 60% del proprio Pil. Per l'Italia significherebbe oltre 50 miliardi di euro l'anno, un impegno troppo difficile da rispettare (per Roma) e da esigere (per Bruxelles).

Cosa cambia

I nuovi impegni previsti dalla riforma, al contrario, sono tutt'altro che fuori portata. Secondo le simulazioni della Commissione, l'aggiustamento annuale che l'Italia dovrebbe rispettare ai sensi della riforma corrisponde allo 0,85% del Pil per quattro anni oppure 0,45% per sette anni. In valori assoluti si tratta di una riduzione annua del debito pari a 16 miliardi per quattro anni o di 8,5 miliardi per sette anni (spetta al governo decidere se tagliare di più in meno tempo o spalmare in sette anni la riduzione del debito). Ma se l'obiettivo è alla portata dello Stato membro non si vede perché, se non per motivi politici, l'Europa dovrebbe usare nei confronti del governo guidato da Giorgia Meloni la stessa clemenza dimostrata con i suoi predecessori. Le 'vecchie' regole chiedevano l'impossibile (o quasi). Le norme proposte sono invece tutt'altro che campate in aria.

Violazioni non sanzionate

Persino l'alleggerimento delle sanzioni per chi non rispetta le regole può rappresentare un'arma a doppio taglio: una multa meno pesante, si sa, viene data con più leggerezza dal 'vigile' di turno. Quella attuale, pari a un massimo dello 0,2% del Pil, non è mai stata usata nei confronti dei Paesi dell'Eurozona che non hanno rispettato le regole dell'attuale Patto, sospeso dall'inizio della pandemia e mai riattivato. Solo Portogallo e Grecia hanno rischiato le multe rispettivamente nel 2002 e nel 2005, mentre le violazioni dei Paesi più grandi, come la Francia, non sono mai state considerate così gravi da ipotizzare l'uso delle sanzioni. Anche per questo Romano Prodi, quando era ancora presidente della Commissione europea, definì "stupido" l'intero Patto di stabilità in un'intervista a Le Monde. 

Le nuove multe

Oggi non è dato a sapere cosa ne pensi il professore delle norme appena proposte dalla Commissione e ora al vaglio dei governi nazionali. Di certo le sanzioni per chi sgarra sono più leggere: prevedono un massimo semestrale dello 0,05% del Pil e non possono comunque andare oltre lo 0,5% del prodotto interno lordo. Considerando il Pil italiano dello scorso anno pari a circa 1.909 miliardi di euro, la multa ipotetica per l'Italia sarebbe inferiore a un miliardo ogni sei mesi. Una sanzione certamente sopportabile per un'economia come quella italiana e che dunque l'Ue potrebbe imporre senza pensarci due volte.

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