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Mercoledì, 24 Aprile 2024

Alfonso Bianchi

Giornalista

Il soldato bambino Vadim ispira pietà, è una vittima anche lui

Gli occhi del mondo sono tutti puntati sul sergente russo Vadim Shishimarin, il 'soldato bambino', accusato dell'orrendo crimine di aver sparato in testa a un uomo di 62 anni. Non un soldato, un civile. Un buon padre di famiglia, Oleksandr Shelypov, colpevole solo di essere passato con la sua bicicletta nel posto sbagliato al momento sbagliato. E di aver cacciato dalla tasca il suo telefonino. È stato allora che, secondo le prime ricostruzioni, Shishimarin, che stava passando di lì con alcuni commilitoni, temendo che l'uomo stesse avvertendo le forze ucraine della loro presenza, gli ha sparato in testa, senza esitare. Lo ha ammazzato come un cane. Gli ha fatto schizzare il cervello sul ciglio della strada, a pochi metri dalla sua stessa casa. Dio solo sa il dolore che deve aver provato sua moglie, Kateryna Shelypova, nel trovarlo morto sul prato, disteso in un lago di sangue, il suo stesso sangue.

Eppure l'immagine di quel soldato bambino, seduto in un'aula di tribunale, con la testa rasata e gli occhi bassi, ispira pietà. Elevato all'infame rango di simbolo dell'invasione, dell'oppressore cattivo, e dato in pasto ai media di tutto il mondo per soddisfare un'opinione pubblica nazionale, ma anche internazionale, assetata di vendetta. Un po' come la regina Cersei del Trono di spade, costretta a camminare nuda tra la folla che le sputava addosso. “Shame! Shame! Shame!”. “Vergogna! Vergogna! Vergogna!”.

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E nel primo giorno di processo Shishimarin, dimostrandosi più uomo che bambino, ha avuto la dignità di dichiararsi colpevole, anche questa volta senza esitare. Non cercherà scappatoie legali o di allungare i tempi del processo come il più classico degli imputati in Italia. Deve sentire il fuoco del rimorso che gli brucia dentro per ammettere immediatamente una colpevolezza che gli potrebbe costare un ergastolo, peraltro in un Paese in cui l'odio contro di lui non potrebbe essere più forte.

In Aula al suo fianco, con una perfetta scelta scenografica, è stata fatta sedere la vedova della sua vittima. Il suo sguardo addosso doveva bruciare come il napalm. Ma lei stessa, dimostrando una maggiore umanità di chi le ha chiesto di sedersi lì, alla stampa ha detto: "È un bambino, è giovane, mi dispiace per lui”. Quanta dignità anche in queste parole, che non significano certo giustificare le azioni dei soldati russi, che lei stessa ha definito “imperdonabili”.

Io quando avevo 21 anni andavo all'università. Il primo anno feci solo un esame, proprio per non fare il servizio militare, che allora era obbligatorio. Mamma e papà mi davano ancora la paghetta, davvero come a un bambino, e ci compravo da bere e da fumare. Ero un chitarrista, facevo abbastanza schifo ma sognavo di diventare una star. Direi che posso solo immaginare cosa si prova ad andare in guerra a quell'età, ma non sarebbe vero, perché non lo posso neanche immaginare. Lui a 21 anni lo hanno mandato ad ammazzare, a conquistare un Paese non suo. Ad uccidere persone che hanno il suo “stesso identico umore, ma la divisa di un altro colore”, cantava un grande che non c'è neanche bisogno di nominare. Io la mattina prima delle 10 non mi alzavo dal letto.

Quello che ha fatto è tremendo, ma lui stesso ha avuto il coraggio e la forza di ammetterlo. Se giustizia per questo crimine deve esserci che sia fatta, ma lontano dalle telecamere. Nonostante quello che ha fatto, il sergente Vadim Shishimarin non meritava di essere elevato a simbolo delle atrocità di questa guerra. Non si cancella un'atrocità con un'altra atrocità.

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