L’epidemia dei selfie mortali: più di un decesso ogni 12 giorni nel mondo per i "killfie"
Dal 2008 al 2021 sono morte 379 persone mentre si scattavano foto in situazioni di pericolo. Italia 11esimo Paese per vittime
Negli ultimi tredici anni, dal gennaio 2008 allo scorso luglio, almeno 379 persone hanno perso la vita nel mondo mentre si stavano scattando un selfie. A dirlo è uno studio pubblicato dalla Fondazione iO, che si occupa di formazione su tematiche legate alla salute e alla medicina di viaggio, e rimbalzato dal Paìs. Il fenomeno, che molto probabilmente è più esteso di quanto documentato, è esploso con la diffusione dei social network, e ha portato alla nascita di un neologismo: “killfie”, dall’unione del verbo “kill” (“uccidere”) con “selfie”.
I numeri dell’ecatombe
Stando ai dati dello studio, raccolti in una bacheca interattiva che mostra diverse tipologie di statistiche, una larga fetta dei decessi registrati sono turisti: 141, oltre il 37%. Questo dato dimostrerebbe che i viaggiatori sono particolarmente propensi a mettersi in situazioni di pericolo pur di scattare una foto “mozzafiato”. Il Paese con il maggior numero di morti è l’India per distacco (100), seguita dagli Stati Uniti (39) e dalla Russia (33). L’Italia è all’undicesimo posto con 6 decessi nel periodo considerato. L’anno più nefasto è stato il 2018, mentre l’età media dei deceduti è di poco superiore ai 24 anni, con un rapporto medio tra morti maschili e femminili di 3 a 2. Quanto alle cause, le cadute da luoghi elevati (cascate, tetti, dirupi ecc) sono di gran lunga le più frequenti (216 casi), seguite dagli incidenti legati al trasporto (123) e l’annegamento (66).
Ma l’indagine, la più completa compilata finora, ha comunque dei limiti. Anzitutto, i dati provengono da un’analisi incrociata di tutte le fonti mediatiche che riportano questi eventi in una tra sei lingue (inglese, francese, tedesco, spagnolo, italiano, portoghese). Questo significa che i casi di cui viene data notizia in altre lingue (o non viene data notizia affatto) non vengono “rintracciati”. Inoltre, si occupa unicamente di decessi: non vengono perciò tenuti in conto i casi di incidenti anche estremamente gravi in cui però la vittima non perde la vita.
Una questione di salute pubblica
La gravità del fenomeno è peggiorata negli anni: secondo Manuel Linares Rufo, presidente della Fondazione iO, “è un problema emergente che, per la scala che ha assunto, può essere considerato un problema di salute pubblica. Lo studio ci ha aiutati a misurarlo ed è il primo passo verso l’adozione di misure per affrontarlo”. Sulle motivazioni alla base dell’indagine, Linares Rufo spiega: “L'idea di fare lo studio è nata quando abbiamo visto il notevole impatto delle notizie su queste morti e la scarsa percezione del problema nella letteratura scientifica e le raccomandazioni fatte dalla medicina dei viaggi”. “In una certa misura, il lavoro è erede della pandemia. Con essa, sono stati sviluppati molti strumenti che ora possiamo usare per fenomeni come questo e aiutare ad affrontarli”, ha aggiunto.
“Una possibilità sarebbe quella di identificare i luoghi più pericolosi e avvertire i visitatori, cosa che dovrebbe coinvolgere anche i produttori di telefoni, gli sviluppatori di applicazioni e le amministrazioni. A livello locale, dovrebbero essere intraprese azioni di formazione”, ha concluso. La situazione preoccupa evidentemente le amministrazioni locali dei luoghi più interessati da questo fenomeno. In India, ad esempio, alcune aree sono state dichiarate “zone selfie-free”, nel tentativo di disincentivare questa pratica i cui risvolti possono essere, seppur raramente, estremamente pericolosi.
Psicologia del “killfie”
Nel 2019 Raffaella Saso, vicedirettrice dell’istituto di ricerca Eurispes, aveva parlato del fenomeno del “killfie” in questi termini: “Comportamenti di estrema imprudenza soprattutto da parte dei giovani, alla ricerca di adrenalina o nel tentativo di apparire audaci, sono sempre esistiti ma questo è anche un fenomeno nuovo. C’è un uso deteriore delle tecnologie: non c’è solo la sfida alla sicurezza, ma un narcisismo acrobatico, la ricerca della spettacolarizzazione, che non riguarda solo chi resta ucciso o ferito, ma anche i selfie fatti sui luoghi di tragedie, un comportamento riprovevole sul piano etico”. “La spettacolarizzazione esasperata dei comportamenti negativi c’è sempre stata, ma adesso si è più motivati a metterla in atto. E’ una sorta di fiera delle vanità per cui il virtuale conta più del reale: metterlo sui social significa che il riconoscimento pubblico conta più dell’esperienza”, aveva sostenuto, notando anche che “in alcuni casi le vittime hanno causato incidenti che potevano coinvolgere altre persone”.