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Giovedì, 25 Aprile 2024
Caso Sea Watch

Il rimprovero dei giudici Ue all'Italia sul fermo delle navi ong che salvano migranti

L’associazione umanitaria tedesca Sea Watch aveva subito il sequestro amministrativo di due imbarcazioni per “carenze tecniche”. Ma le autorità italiane avrebbero dovuto fornire le prove

È legale fare controlli a bordo delle navi ong che trasportano migranti salvati in mare, ma se uno Stato vuole bloccare l’imbarcazione in porto deve provare che ci sia “un evidente pericolo per la sicurezza, la salute o l’ambiente”. Lo hanno stabilito i giudici della Corte di giustizia dell’Ue sul caso delle due navi Sea Watch bloccate dalle autorità italiane nelle acque di Palermo e Porto Empedocle nell’estate del 2020. Il provvedimento era stato motivato con le presunte “carenze tecniche e operative che danno origine a un evidente rischio per la sicurezza, la salute o l’ambiente”. La decisione dei giudici Ue suona però come un rimprovero alle autorità italiane che non hanno motivato a dovere queste circostanze.

I due provvedimenti di sequestro amministrativo erano stati presi nei mesi successivi alla prima epidemia di Covid-19 in Italia. Le due capitanerie di porto avevano rilevato una serie di irregolarità tecniche ed operative che impedivano il rilascio della certificazione necessaria per accogliere a bordo un numero così elevato di persone come quelle arrivate con gli ultimi sbarchi. Dal ricorso della ong tedesca Sea Watch si è poi arrivati alla decisione della Corte Ue. I giudici, in primo luogo, hanno confermato che l’Italia, come tutti gli altri Stati Ue, può sottoporre al fermo “qualsiasi nave che si trovi in un porto o nelle acque soggette alla giurisdizione di uno Stato membro e batta bandiera di un altro Stato membro”. L’associazione umanitaria con sede a Berlino si era infatti giocata anche questa carta per chiedere lo sblocco delle navi. 

Tuttavia, la Corte Ue ha poi ricordato all’Italia che per prendere provvedimenti di sequestro amministrativo occorre che lo Stato “dimostri, in maniera concreta e circostanziata, l'esistenza di indizi seri di un pericolo per la salute, la sicurezza, le condizioni di lavoro a bordo o l’ambiente” e “spetta al giudice del rinvio verificare il rispetto di tali prescrizioni”. In altre parole, le autorità avrebbero dovuto fornire le prove dei rischi ipotizzati, mentre il controllo spettava ai giudici italiani, che invece in questo caso hanno buttato la palla sul campo dell’interpretazione del diritto europeo. 

Per quanto riguarda la questione delle certificazioni, i giudici Ue hanno stabilito che “lo Stato di approdo non può imporre che venga provato che tali navi dispongono di certificati diversi da quelli rilasciati dallo Stato di bandiera o che esse rispettano tutte le prescrizioni applicabili a una diversa classificazione” e in ogni caso le eventuali contromisure devono essere “adeguate, necessarie e proporzionate”. In parole povere, un fermo amministrativo non può essere motivato con una questione di certificazione diversa tra quella rilasciata dallo Stato di bandiera della nave e quello di approdo. 

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Infine, la Corte europea ha sottolineato “l’importanza del principio di leale cooperazione, secondo il quale gli Stati membri, tra cui quello che riveste la qualità di Stato di approdo e quello che riveste la qualità di Stato di bandiera, sono tenuti a cooperare e a concertarsi nell’esercizio dei loro rispettivi poteri”. Anche qui si legge tra le righe un rimprovero alle azioni unilaterali decise dalle autorità italiane nel difficile contesto della pandemia ma che, secondo un’attenta lettura della decisione, sembrano andare ben oltre i limiti dettati dal quadro giuridico di riferimento.

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