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Giovedì, 18 Aprile 2024
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"Io, tornato dal Sudan per salvare i pazienti Covid di Bergamo. E ora riparto per l'Uganda"

Il racconto di Giorgio Brogiato, infermiere 35enne, che ha lasciato (temporaneamente) gli scenari di guerra per mettere su prima l'ospedale da campo e poi l’ambulatorio di Emergency nella città simbolo della prima ondata. Un'esperienza, quella della ong italiana, che ha fatto scuola nel mondo. E che l'Ue ha premiato

"Quelli che pensano solo ai migranti, adesso che c'è il coronavirus dove sono?". La retorica anti-ong era già partita pochi giorni dopo lo scoppio della pandemia e i primi lockdown, infestando social e media. Ma la risposta ai leoni da tastiera era arrivata ancora prima delle accuse. Lo sa bene Rossella Miccio, presidente di Emergency, che forte dell'esperienza della sua organizzazione sugli scenari di guerra più critici, ha messo in piedi in pochissimo tempo, nell'epicentro della prima ondata, a Bergamo, un intero ospedale da campo attrezzato con un’unità di terapia intensiva (oltre a varie altre iniziative di solidarietà che trovate qui). E lo sa bene Giorgio Brogiato, richiamato dal Sudan per lavorare proprio lì. In quella struttura flessibile, visto che adesso è diventata un ambulatorio per il follow-up dei pazienti Covid. E che ha fatto scuola in tutto il mondo, come ha riconosciuto la stessa Unione europea attraverso un premio assegnato dal Comitato economico e sociale

Il rischio di vestirsi

“Bergamo ha funzionato perché avevamo tutta l’esperienza pregressa con l’Ebola”. Giorgio ha 35 anni, dal 2015 è un infermiere di Emergency con tante missioni internazionali alle spalle, tra Sierra Leone e Sudan. Riusciamo a parlare con lui poco prima dell’imbarco del volo che lo porterà in Uganda. In quella primavera del 2020 era stato mandato a Bergamo, zona di una guerra diversa. “Lavoravo nella terapia intensiva di quell’ospedale da campo, e una delle cose che ci ha salvato è sicuramente la tecnica acquisita nella vestizione” spiega Brogliato. Il momento in cui medici e infermieri infatti mettevano o toglievano camici e dpi come mascherine o visiere era quello in cui si esponevano al rischio più alto.

“Anche in Sierra Leone era così, e infatti a Bergamo abbiamo predisposto una stanza apposita, con cestini specifici per lo smaltimento dei rifiuti e i giusti processi di sterilizzazione”. E poi a differenza di molti colleghi in Italia il personale di Emergency aveva già familiarità e manualità con questi dispositivi, che non sono comodi per lavorare: “le prime volte ti viene da toccarti e da toccare ovunque”, dice l’infermiere, “ma poi impari”. Grazie a queste tecniche i contagi tra il personale medico e infermieristico sono stati pochi. 

EMERGENCY 3-2

L’esperienza di Ebola e degli scenari di guerra ha creato una forma mentis specifica, una scala di priorità e di gesti che “ormai a noi vengono automatici. Sai cosa fare prima e cosa dopo, l’impostazione dell’ospedale è molto intuitiva e rende facile trovare gli strumenti e i medicinali” spiega ancora Broglato. “E poi, soprattutto, Ebola ci ha insegnato a gestire lo stress e la tensione, a lavorare sotto la pressione continua del nuovo malato che entra e va a sostituire quello che è appena uscito”, con le sue gambe o no. “Siamo riusciti a lavorare con colleghi mai incontrati prima, con una formazione diversa e che parlavano un’altra lingua, proprio perché l’impostazione dell’ospedale ci permetteva di comunicare, collaborare e lasciarci le consegne”. In quella struttura lavorava, oltre a Emergency, il personale dell’ospedale Papa Giovanni di Bergamo, la Protezione Civile e alcuni medici arrivati dalla Russia.

La missione di Bergamo

Brogliato parla di Bergamo come di una missione, come quelle che ha già fatto in Africa. “Era complicato, non sapevamo niente della malattia”, spiega, ricordando quei giorni nell’ospedale da campo. All’inizio anche la comunità medica era divisa sulla trasmissione del virus, sull’uso dei dispositivi di protezione internazionale e sul livello di contagiosità del sintomatico e dell’asintomatico. “Con Ebola era diverso, era più semplice perché sapevi chi erano i malati, perché erano tutti sintomatici”. Racconta che i primi sistemi di triage, di accoglienza dei pazienti nei pronto soccorso, erano da inventare: come dividiamo i pazienti? Come teniamo puliti i reparti?

EMERGENCY 4-2

Salvate la paziente Carla

Il suo ricordo è di giornate interminabili, frenetiche, con turni da dodici ore. Per settimane non hanno fatto altro che lavorare, senza la forza di fare altro dal mangiare, lavarsi e dormire una volta a casa o nei rifugi di fortuna trovati per non contagiare i parenti. E durante il turno di lavoro mai una pausa: “Non avevamo idea di quello che succedeva fuori, tra la logistica e le altre cose, perché noi eravamo nel cuore rosso della zona rossa. Non c’era tempo”. Ma nonostante questo, i pazienti se li ricorda, perché dice che ognuno di loro ha lasciato qualcosa: “C’era una signora, si chiamava Carla, entrata in condizioni davvero critiche, ogni giorno pensavamo fosse il suo ultimo. E invece piano piano siamo riusciti a estubarla, a farla mangiare, a rimetterla in piedi con tanto lavoro dei fisioterapisti, a farle vedere un po’ di luce del sole. E alla fine è stata dimessa, sta bene, ci ha mandato un messaggio. È stata una soddisfazione perché con lei c’è stato un grande lavoro corale”. 

Da ospedale da campo a ambulatorio

A prima emergenza conclusa, l’ospedale da campo è diventato un centro per il follow-up dei pazienti covid, dove erano tenute in osservazione le persone con sintomi più critici e dove riceveva cure e medicazioni chi invece era stato dimesso. Non è rimasta quindi una cattedrale nel deserto, ma un polo che ha garantito all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo di non rientrare in sofferenza. Brogliato e la presidente di Emergency, Rossella Miccio, sono concordi: questo sistema funziona, deve solo essere adattato alle specifiche della pandemia in corso ma si può esportare. Per questo il premio del Comitato sociale ed economico europeo nella categoria “transnazionale” è importante, perché certifica proprio questo. “Il premio ha un grande potenziale per rafforzare questa consapevolezza e promuovere nuove alleanze a livello globale”, ha spiegato Miccio, “come Emergency, vogliamo contribuire alla costruzione di sistemi sanitari resilienti durante questa crisi sanitaria e sociale”.

Il premio del Cese e l'impegno che va avanti

Il Premio europeo per la solidarietà civile è nato del 2020, proprio per riconoscere i meriti di chi si è speso contro la pandemia seguendo i valori dell’Unione europea: diritto a una sanità pubblica accessibile a tutti, attenzione alla specificità dei territori ma azione comunitaria. Mentre la pandemia attraversava le varie fasi, il lavoro di Emergency non è si è fermato a Bergamo: a Milano, Roma, Piacenza, Napoli e Catanzaro è stata organizzata la consegna di pacchi alimentari e beni di prima necessità alle persone in difficoltà.

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A Milano nella periferia nord a marzo 2020 era stato creato una sorta di "Covid hotel" ante litteram per chi aveva bisogno di isolarsi o fare la quarantena e non aveva altro luogo in cui andare. Sempre nella città meneghina a dicembre è stato aperto uno spazio in via Fulvio Testi, una struttura per la quarantena delle persone che vivono nei centri di accoglienza comunali. Può ospitare fino a 12 persone in attesa di tampone, con sintomi riconducibili al Covid-19 o che hanno avuto contatti con qualcuno che si è poi rivelato positivo. Gli ospiti provengono dai dormitori per persone senza fissa dimora e per le strutture di quello che un tempo era lo SPRAR, per richiedenti protezione internazionale e per minori non accompagnati.

“Finora sono state ospitate venti persone, e siamo aperti da meno di tre mesi” spiega Francesca Bocchini, di Emergency. “Dodici erano casi sospetti o contatti stretti, abbiamo avuto tre casi positivi che sono stati presi in carico dall’Asl e quattro minori non accompagnati ospiti per una notte”. La struttura è presidiata 24 ore su 24, con 7 oss, 1 medico e 2 infermieri. Anche questo fa parte di quel pacchetto di cura e prevenzione proposto da Emergency: un modo di intendere la sanità e la presa in carico del paziente che è stato premiato dall’Unione europea.

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