Cosa cambierà dopo la strage di migranti in Grecia
Da anni, la linea Ue sull'immigrazione illegale si è ridotta alla lotta dei trafficanti attraverso la cooperazione con i Paesi terzi. Ma i risultati fallimentari riportano alla ribalta il tema dei soccorsi
Era il 9 ottobre 2013 quando l'allora presidente della Commissione Ue, José Manuel Barroso, giunse a Lampedusa per portare la vicinanza dell'Europa ai superstiti e alle vittime di quella che all'epoca era considerata la più grande tragedia dell'immigrazione nel Mediterraneo: "Dobbiamo rafforzare la nostra capacità di ricerca e soccorso, e il nostro sistema di sorveglianza per rintracciare le imbarcazioni, in modo da poter avviare un'operazione di salvataggio e riportare le persone in un luogo sicuro prima che muoiano", disse dopo aver visto le bare.
Quasi dieci anni dopo, al largo di Pylos in Grecia, la conta dei morti potrebbe superare di gran lunga quella di Lampedusa. Ma così come successo a febbraio a Cutro, da Bruxelles (almeno per il momento) nessuno si è mosso. Agli archivi restano i tweet di cordoglio della presidente dell'esecutivo Ue, Ursula von der Leyen (di centrodestra come Barroso): "Dobbiamo continuare a lavorare insieme, con gli Stati membri e i Paesi terzi, per prevenire tali tragedie", ha scritto. Mentre il commissario agli Affari interni Ylva Johansson (di centrosinistra) ha puntato il dito contro i trafficanti di migranti. Nessuna parola sulla carenza nei soccorsi.
Eppure è proprio qui il nodo che emerge con sempre più evidenza da quanto accaduto a Cutro e Pylos. In entrambi i casi, Frontex, l'agenzia di frontiera dell'Ue che si occupa di fornire assistenza agli Stati membri per individuare i barconi in pericolo, aveva avvisato ore prima dei rischi che correvano le due navi di migranti. E i entrambi i casi nessuno è intervenuto per tempo, né le autorità italiane, né quelle greche. Ecco perché a Bruxelles c'è chi è tornata a sottolineare la necessità di riaprire il dibattito sulle attività di ricerca e soccorso in Europa. Qualcosa, scrive La Stampa, sembra muoversi in tal senso. Anche perché ridurre ai soli trafficanti le responsabilità di queste tragedie e fornire dall'altro lato come unica risposta la cooperazione con i Paesi terzi per stanarli e bloccarli, fa a pugni con la realtà, con i fallimenti di Ue e governi, e con il diritto internazionale.
La dimensione esterna
Andiamo per punti: la collaborazione con i Paesi terzi. Il barcone affondato al largo della Calabria era partito dalla Turchia, un Paese con cui l'Ue ha da tempo una cooperazione (pagata a suon di miliardi dei contribuenti europei) per bloccare le partenze. Il peschereccio inabissatosi al largo della Grecia, potrebbe essere partito o da Tobruk, nella Libia orientale, o dall'Egitto. Nel primo caso, si tratta di un territorio dove vige l'anarchia: l'unico governo riconosciuto dall'Ue (e con cui è possibile cooperare) è quello di Tripoli, che su Tobruk non ha alcuna presa. Nel secondo caso, si tratta di un Paese che ha già una collaborazione attiva con Bruxelles per bloccare i trafficanti: nell'ottobre scorso, la Commissione ha stanziato 80 milioni per finanziare la guardia costiera del Cairo. Tutto questo per dire che concentrarsi solo sulla cosiddetta dimensione esterna dell'immigrazione, attraverso partenariati con i Paesi di partenza, non solo è complicato per ragioni di instabilità politica di quei Paesi, ma non basta a eliminare del tutto il fenomeno anche quando la cooperazione funziona.
La lotta ai trafficanti
Altro elemento: i trafficanti di esseri umani. Come ricorda The Conversation, le agenzie europee di contrasto al crimine spesso divulgano informazioni sugli arresti di presunti trafficanti, ma mancano i dati su quanti di questi arresti portino effettivamente a condanne. Una ricerca dell'European university institute, fa notare che il risultato principale della maggior parte delle operazioni contro queste reti criminali è quello di colpire i "pesci piccoli". Come ha confermato l'ex direttore di Frontex Gil Arias nel 2022, pochissimi grandi gruppi di trafficanti sono stati fermati dalle forze dell'ordine europee. Nelle carceri europee, invece, sono finiti per lo più migranti che hanno guidato o accettato di comandare la barca in cambio di una tariffa inferiore per compiere il tragitto verso l'Europa.
Nel nome della lotta al traffico degli esseri umani, l'Ue ha al momento attive ben 4 operazioni nel Mediterraneo: Themis, Poseidon, Indalo e Irini. Solo Irini, la più recente del quartetto, costa annualmente quasi 10 milioni di euro. Per il momento, i risultati non sono dei migliori, anche solo sotto il profilo della lotta ai gradi network criminali (l'altro obiettivo sarebbe salvare vite umane).
Il nodo irrisolto dei soccorsi
Ecco perché concentrarsi solo sulla "protezione delle frontiere" (altro termine spot molto in voga negli ultimi anni) non può bastare a evitare tragedie. Se poi il diritto internazionale ha ancora un valore (a partire dalla Convenzione di Ginevra), non si può eludere la questione dei soccorsi. "Va da sé che dobbiamo proteggere i nostri confini nazionali ed europei - ha detto l'ex premier greco Alexis Tsipras dopo al tragedia di Pylos - Tuttavia, i nostri valori e il diritto internazionale ci chiedono allo stesso tempo di dare priorità alla protezione della vita umana. Non puoi fare l'uno senza l'altro. Dobbiamo fare entrambe le cose contemporaneamente: la protezione dei confini e la protezione della vita umana".
Perché l'Europa non soccorre i migranti
E qui torniamo al nodo dei soccorsi: come ha ricordato per l'ennesima volta la Commissione europea, sono i singoli Stati membri a occuparsi delle cosiddette operazioni Sar, ossia le operazioni di ricerca e soccorso dei migranti nel Mediterraneo. Come abbiamo scritto ieri, non è stato sempre così: tra il 2015 e il 2020, l'Ue era riuscita ad abbozzare una forma di missione congiunta, chiamata Sophia, che poteva contare su una flotta di navi militari fornite da diversi Paesi del blocco e coordinate dall'Italia. Il mandato di tali navi si limitava al pattugliamento, sulla carta. Ma di fatto, tali imbarcazioni sono state utilizzare per prestare soccorsi, salvando, sostiene l'Ue, circa 45mila vite umane. Con Sophia, dicono i dati, le morti nel Mediterraneo centrale, l'area in cui operava, sono diminuite.
Sophia, però, è stata smantellata. Sui soccorsi, ogni governo Ue fa per sé e si coordina con gli altri attraverso Frontex e il gruppo di contatto Sar. Proprio questo gruppo si è riunito all'indomani della tragedia di Pylos. Secondo la Stampa, nel corso della riunione, la Commissione europea avrebbe cercato di pressare i Paesi membri per stabilire criteri comuni per definire almeno le "situazioni di pericolo" che fanno scattare i soccorsi in mare. Ma pare che i governi si siano dimostrati freddi dinanzi a questa ipotesi, preferendo concentrarsi sulle ong e sulla necessità di un codice di condotta (questo sì comune) per regolare (e limitare) le loro attività di salvataggio.