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Martedì, 23 Aprile 2024
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Non si può criminalizzare chi aiuta i richiedenti asilo, la Corte Ue condanna l'Ungheria

Nel mirino dei giudici di Lussemburgo la cosiddetta legge “stop Soros” voluta da Orban. Richiamata anche la Polonia per aver violato (ancora una volta) l'indipendenza dei magistrati

Criminalizzare e punire chi aiuta dei richiedenti asilo è contrario al diritto comunitario. Per questo la Corte di Giustizia dell'Ue ha condannato l'Ungheria accogliendo un ricorso che era stato fatto dalla Commissione europea. La cosiddetta legge "Stop Soros" (dal nome del miliardario di origine Ungherese, George Soros, accusato dal primo ministro Viktor Orbán di favorire l'immigrazione irregolare nella nazione), che è stata approvata nel giugno 2018 dal parlamento di Budapest, ha vietato di fornire assistenza agli immigrati irregolari che vogliono chiedere asilo o la residenza all'interno del Paese, con pene fino a un anno di carcere per chiunque sia ritenuto colpevole.

Per i giudici di Lussemburgo, "la configurazione come reato di questa attività è in contrasto con l'esercizio dei diritti garantiti dal legislatore dell'Unione in materia di sostegno ai richiedenti la protezione internazionale". Il testo approvato dal Parlamento ha inoltre reso più difficile l'accesso alla protezione internazionale limitando il diritto di asilo ai soli casi in cui le persone arrivino direttamente da un Paese in cui la loro vita o la loro libertà sono considerate a rischio. La legge, sostenuta da Orbán e dal suo partito Fidesz, è stata immediatamente condannata da Bruxelles. La Commissione ha avviato una procedura di infrazione nel luglio 2018 nel tentativo di costringere il governo a invertire la rotta e poiché la legge è rimasta in vigore, la Commissione ha finito per deferire la questione alla Corte di giustizia dell'Ue.

Quest'ultima ha stabilito che l'Ungheria è venuta meno agli obblighi disposti dalla direttiva "procedure", consentendo di respingere in quanto inammissibile una domanda di protezione internazionale con la motivazione che il richiedente è giunto nel suo territorio attraversando uno Stato in cui non è esposto a persecuzioni o a un rischio di danno grave, o in cui è garantito un adeguato livello di protezione, e in cui quindi avrebbe dovuto rimanere. Poi, la Corte dichiara che "l'Ungheria è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti, punendo come reato nel suo diritto interno il comportamento di qualsiasi persona che, nell'ambito di un'attività organizzativa, offra un sostegno alla presentazione o all'inoltro di una domanda di asilo nel suo territorio, qualora sia possibile provare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che tale persona era consapevole del fatto che detta domanda non poteva essere accolta, in forza del succitato diritto".

La Corte ritiene che la normativa ungherese limita, da un lato, i diritti di avere accesso ai richiedenti protezione internazionale e di comunicare con questi ultimi e, dall'altro, l'effettività del diritto garantito al richiedente asilo di poter consultare, a proprie spese, un consulente legale o altro consulente. In secondo luogo, la Corte considera che limitazione del genere non può essere giustificata dagli obiettivi invocati dal legislatore ungherese, vale a dire la lotta contro il sostegno offerto ai fini del ricorso abusivo alla procedura di asilo e la lotta contro l'immigrazione illegale fondata sull'inganno.

In una sentenza separata la Corte europea ha anche condannato la Polonia per aver dato il potere al ministro della Giustizia di trasferire e revocare il trasferimento dei giudici, in qualsiasi momento e senza motivazione, affermando che questa norma viola il diritto comunitario, perché rischia di essere impiega come strumento di controllo politico del contenuto delle decisioni giudiziarie, in particolare nel settore penale, e non rispetta quindi il requisito dell'indipendenza della magistratura, principio fondamentale nello stato di diritto. Inoltre, la Corte Ue considera che in queste circostanze potrebbe essere compromessa l'imparzialità dei giudici e, di conseguenza, la presunzione di innocenza che deve applicarsi ai procedimenti penali. L

a normativa in questione consente al ministro della Giustizia di distaccare un giudice presso un organo giurisdizionale penale superiore, sulla base di criteri che non sono resi pubblici e per un periodo che può essere determinato o indeterminato, e di revocare poi il distacco in qualsiasi momento e con decisione non motivata. Di conseguenza, secondo la Corte Ue, durante il periodo in cui sono distaccati, i giudici, pur dovendo dare il loro consenso al distacco (ma non alla sua revoca), potrebbero non avere le garanzie e l'indipendenza di cui qualsiasi magistrato dovrebbe generalmente godere in uno Stato di diritto.

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