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Sabato, 20 Aprile 2024
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"L'odio mette a rischio l'Ue, ecco come lo combattiamo. In nome della maggioranza silenziosa"

Intervista a Tommaso Chiamparino, coordinatore della Commissione europea per il contrasto all’odio nei confronti dei musulmani: "Preoccupati dall'aumento di attacchi e atti dicriminatori nei confronti delle minoranze, ma anche dalla riduzione dello spazio di espressione per chi non condivide le posizioni intolleranti"

La strage di Christchurch in Nuova Zelanda di qualche giorno fa e la più recente rivolta contro i rom a Torre Maura a Roma hanno riportato alla ribalta il tema dell’odio nei confronti delle minoranze. Musulmani, ebrei, rom, comunità Lgbt, migranti: il fenomeno è sempre più diffuso, alimentato dall’hate speech online, l’incitamento all’odio che parte dal web e dai social media, da fake news e, sempre più spesso, da vere e proprie strategie di comunicazione che fanno il gioco di movimenti politici di stampo populista, xenofobo e razzista. Se non volutamente orchestrate da questi. Fenomeno (o forse meglio dire fenomeni) che Tommaso Chiamparino conosce bene: dallo scorso luglio, la Commissione europea lo ha nominato Coordinatore per il contrasto all’odio nei confronti dei musulmani. “Lavoro all’interno di un team che ci occupa in generale di razzismo e xenofobia – spiega – Il nostro compito è quello di essere punto di riferimento per le autorità nazionali e la società civile nel coordinare delle risposte a queste sfide”.

Chiamparino, partiamo dall’hate speech, il tema forse più dibattuto in questi ultimi tempi, viste anche le connessioni con movimenti e partiti che stanno sconvolgendo il panorama politico europeo. Cosa sta facendo la Commissione Ue in merito?

La Commissione europea sta affrontando il problema da tempo. Già nel 2008, approvammo una legge quadro che definiva il reato di incitamento all’odio e la violenza di stampo razzista e xenofobo che come tale va perseguito penalmente a livello nazionale. Questo ci ha permesso di mettere a punto delle misure per contrastare questo fenomeno. Un fenomeno che poi, con la diffusione capillare dei social media, ha assunto nuove connotazioni a cui abbiamo dato risposta con il Codice di condotta del 2016, che ha coinvolto i principali attori del settore, da Facebook a Twitter, passando più di recente per Instagram. Con questo Codice, le piattaforme social media si impegnano a contrastare l’hate speech online e in particolare a monitorare con più efficacia e a rimuovere i contenuti d’odio.

Sta funzionando?

Il Codice ha dato risultati importanti in tempi brevi, dando prova di essere uno strumento rapido ed efficace per rispondere al fenomeno dell'hate speech. In base al Codice, la piattaforma che riceve la notifica da parte di un utente deve agire rapidamente entro 24 ore per rimuovere il contenuto. Come ogni misura ha avuto bisogno di una fase di rodaggio.  I risultati del primo monitoraggio che abbiamo condotto pochi mesi dopo l’approvazione del testo mostravano che solo il 28% dei contenuti notificati erano stati rimossi. E circa il 60% veniva esaminato ben dopo le 24 ore. Dopo due anni, in seguito a un nuovo monitoraggio, abbiamo constatato che la rimozione dei contenuti d’odio aveva raggiunto il 70%, e quasi 9 contenuti su 10 erano stati esaminati entro le 24 ore. Siamo ormai arrivati al livello che ci prefiguravamo di raggiungere, anche perché il 100% di contenuti notificati e rimossi non potrà essere mai raggiunto: c’è una quota, direi fisiologica, di meme o post segnalati che all'esame non risulta illegale. In questi casi occorre assicurare che la libertà d'espressione sia tutelata.  

Ma come si origina l’hate speech?

Abbiamo promosso diversi studi per capire meglio quelli che chiamiamo gli ‘ecosistemi’ dell’odio, per capire se e quali strategie ci sono dietro i messaggi e che tipo di risposte dare. Da alcune indagini è emerso che spesso sono i fatti di cronaca ad alimentare lo spread dell’odio, come successo dopo gli attentati terroristici. Ma quello che colpisce è che anche quando una minoranza oggetto d’odio è vittima, il risultato non cambia. E’ successo poche settimane fa con la strage in Nuova Zelanda: dopo l’attentato, che ha ucciso decine di musulmani, si è registrato in alcuni paesi un aumento del 500% dei reati d’odio nei confronti degli stessi musulmani.

I musulmani sono la categoria più colpita dall’hate speech in Europa?

Difficile stilare delle classifiche, perché uno dei limiti attuali è la mancanza di dati comparabili tra i vari Paesi Ue. Abbiamo dei dati raccolti attraverso il monitoraggio delle ong (il monitoraggio sul Codice di condotta  e l’hate crime reporting dell’Osce, ndr), che non sono rappresentativi, ma che comunque mostrano come l’odio nei confronti dei musulmani sia quasi sempre ai primi posti passando da un Paese all’altro. Ci sono poi diverse indagini che rilevano come in diversi Stati membri, Italia compresa, una larga parte della popolazione non vorrebbe un musulmano in famiglia o persino come vicino. E’ questo clima di diffidenza che poi, nei fatti, si tramuta in hate speech e, peggio, in atti discriminatori e violenti. Mi ha colpito, per esempio, il caso di una ragazza di Torino che qualche giorno fa è stata aggredita da dei passeggeri su un autobus solo perché portava il velo. Ci sono poi i casi di attacchi alle moschee in varie parti d’Europa. Quello che bisogna capire è che questi atti, che sono reati, minacciano non solo i musulmani, ma in generale tutte le minoranze, siano essi migranti, o appartenenti alle comunita' ebraiche, o rom. Generano un clima di odio che mette a rischio l’intera società, anche chi si sente di appartenere alla maggioranza. Anzi, ci sono ricerche che mostrano come l’hate speech si ritorca alla fine proprio contro quella che definiamo la “maggioranza silenziosa”

In che senso?

Abbiamo rilevato che la diffusione di post e commenti d’odio sul web spesso ha l’effetto di zittire una maggioranza di utenti che ha paura di esprimere le proprie posizioni più tolleranti, li porta ad abbandonare il dibattito online. Secondo un recente Eurobarometro, il 75% degli intervistati riporta di essersi imbattuta in conversazioni dove si incitava chiaramente all’odio e il 50% di loro ha deciso, per questa ragione, di abbandonare il dibattito. La conseguenza di cio’ è che nel dibattito pubblico si genera un fenomeno per cui l’intolleranza viene percepita maggioritaria rispetto a posizioni più tolleranti, quando non è cosi’. C’è un rischio di riduzione dello spazio di espressione, una contrazione del dibattito pubblico.

Cosa fare su questo aspetto?

Il Codice di condotta della Commissione europea non si riduce solo a monitoraggio e rimozione dei contenuti d’odio. Questo tipo di azione puo’ contrastare il fenomeno, ma non affrontarlo alla radice. Ecco perché la partita è anche quella di mettere in campo una coalizione di attori che possa promuovere delle contro-narrative per educare alla tolleranza. E bisogna farlo partendo da due presupposti: il primo è che chi commette reati d’odio con i suoi messaggi sui social spesso non sa di farlo. Il secondo, è che spesso le campagne di sensibilizzazione non riescono ad andare oltre le persone che hanno già posizioni tolleranti. In tal senso, ci sono progetti interessanti in Spagna e in Germania che puntano a diffondere sul web messaggi positivi, per dare voce a quella “maggioranza silenziosa” di cui parlavo prima e svuotare a poco a poco la narrativa dominante intrisa d’odio e di intolleranza. Dietro l’hate speech si celano spesso gruppi organizzati. Ecco perché servono delle strategie “organizzate” per rispondere a questo fenomeno. E’ quello che la Commissione europea sta provando ad incentivare con dei bandi ad hoc. Ma c’è ancora altro da fare.

Ossia?

Pensare che l’hate speech sia qualcosa che riguardi solo la dimensione del web sarebbe un grave errore. Occorre che i Paesi Ue diano delle risposte concrete che incidano sulla realtà quotidiana da cui si originano i fenomeni di intolleranza. Innanzitutto, dato che parliamo di reati d’odio, questi devono essere individuati con chiarezza dalle leggi nazionali e vanno sanzionati come tali. Senza pene adeguate, non vi è certezza né deterrente. E’ un ambito su cui si deve lavorare di più. Come Commissione europea abbiamo messo in piedi un coordinamento delle autorità nazionali per favorire anche uno scambio di best practice. Bisogna avere una chiara definizione di quelli che sono i crimini d’odio, cosa che non succede in tutti gli Stati membri. Alcuni riconoscono l’islamofobia come una categoria specifica di reato, altri no. Per esempio, stiamo lavorando a stretto contatto con la polizia italiana proprio per rendere più efficace il monitoraggio e di conseguenza la risposta al fenomeno. E anche per migliorare la formazione degli agenti e il supporto alle vittime. Infine, ma non perché meno importante, come Commissione lavoriamo per agire sul livello sociale, perché contro intolleranza e discriminazioni servono politiche coordinate che affrontino i problemi alla radice. Servono misure che migliorino l’inclusione e la prevenzione di fenomeni di marginalità sociale. Comprese politiche nell’ambito dell’educazione.

Abbiamo parlato dei risultati del Codice di condotta sotto il profilo della rimozione dei contenuti d’odio. Ma sugli altri aspetti di cui parla, ci sono stati dei passi avanti?

Il lavoro intrapreso va senza dubbio rafforzato e a ogni modo i risultati si vedranno nel tempo, non certo nell’immediato. Di sicuro, l’Unione europea deve combattere e vincere questa battaglia contro l’odio. Perché i fenomeni di cui abbiamo parlato finora non riguardano solo questo o quel soggetto, questa o quella minoranza. Riguardano tutti i noi. Riguardano i valori fondanti dell’Ue. Il progetto europeo è nato per promuovere una società basata sul pluralismo pacifico. Ed è quello che stiamo continuando a fare alla Commissione Ue.

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